Per la Giornata della memoria – 27 gennaio 2025, la Fondazione Gramsci Emilia-Romagna consiglia tre libri che, da prospettive diverse, raccontano le tragedie, le sfide e i lasciti dell’Olocausto.
- Aldo Garzani, Per violino solo. La mia infanzia nell’Aldiqua (Il Mulino, 1995)
Il libro è un’autobiografia in cui Zargani ripercorre le traversie sue e della sua famiglia durante gli anni della persecuzione antiebraica in Italia, dal 1938 al 1945. Racconta la perdita del lavoro del padre violinista, l’esclusione dalle scuole, il fallito tentativo di espatrio, la fuga da Torino attraverso il Piemonte, l’arresto dei genitori, il periodo trascorso in collegio e la deportazione dei parenti. Nonostante le esperienze dolorose, l’autore riesce a intrecciare ricordi di personaggi e situazioni in un racconto dai diversi toni.
«Il papà e la mamma volevano che noi fossimo felici, noi che avevamo un futuro e, speravano, non avevamo un passato: loro non potevano esserlo tanto, con un futuro ormai quasi consumato. Erano vivi ed era tutto ma era finita la gioventù e piangevano morti assassinati; il loro tempo era cessato senza che l’avessero potuto utilizzare se non per salvare i loro due bambini. Si, avevano vinto ma, come tutti i superstiti, erano rimasti soli; la grande famiglia, istituzione ebraica e italiana, se l’era portata via la guerra. La grande famiglia era finita per tutti gli italiani, ma per gli ebrei quel modo di vivere caldo e rassicurante, che sembrava eterno ma angusto quando c’era, era sparito in venti mesi con il massacro fulmineo della Shoah: si preparavano a tristi giorni di ricerche vane, di intervista ai superstiti e ai testimoni, di regolari processi perduti, come quello al banale capitano Schmid. Mesi e anni di giustizia penale, incompiuta ma giustizia.»
- Sami Modiano, Per questo ho vissuto, (Rizzoli, 2013)
Il libro è una testimonianza in cui l’autore racconta la sua esperienza come sopravvissuto all’Olocausto. Il libro segue la sua vita dall’infanzia serena a Rodi, una comunità con profonde radici ebraiche, fino a quando la sua vita cambiò a 13 anni con l’occupazione nazista dell’isola e la deportazione della comunità ebraica locale nel 1944 ad Auschwitz-Birkenau.
Nel libro descrive in modo vivido la fame, il freddo, la perdita dei suoi cari e la lotta per la sopravvivenza in un contesto disumano. Il titolo stesso sottolinea il messaggio del suo racconto: Sami Modiano ha trovato la forza di vivere per testimoniare gli orrori vissuti e per onorare la memoria di chi non ce l’ha fatta.
«Alle volte io ho cercato di darmi una spiegazione del perché potessero essere così crudeli e barbari, ma non l’ho mai trovata. Io allora ero uno scheletro, un bambino scheletrito, e mi chiedevo perché non li commuovessi, perché non risvegliassi in loro un briciolo di pietà. Mi chiedevo come fosse possibile non trovare qualcuno che avesse un occhio di riguardo per me, qualcuno che, mentre lavoravo, facesse finta di non vedere e mi facesse riprender fiato. Questo sguardo di compassione io lo cercavo, lo volevo… non l’ho mai trovato. Mi dispiace, anche per loro.»
- Valentina Pisanty, Antisemita, (Bompiani, 2025)
Un saggio che analizza come il termine “antisemitismo” sia stato ridefinito nei primi decenni del XXI secolo, spostando l’attenzione dalle forme tradizionali di pregiudizio antiebraico all’ostilità verso Israele. Dopo gli eventi del 7 ottobre 2023, il dibattito politico e culturale è diventato confuso riguardo a cosa costituisca antisemitismo e cosa sia antisionismo. Pisanty critica l’uso politico delle parole per giustificare interessi di parte, sottolineando la necessità di una comprensione chiara e precisa di questi termini
«Ogni guerra è anche una guerra di parole. Forse prima di tutto una guerra di parole, e non è un paradosso cinico. A proposito del famoso discorso di Winston Churchill all’indomani della ritirata inglese da Dunkirk (We shall fight on the beaches, We shall fight on the landing grounds…), Kennedy disse che con le sue parole Churchill aveva mobilitato la lingua inglese per mandarla in battaglia. La guerra di Gaza non fa eccezione, se si vuole chiamare guerra lo scontro asimmetrico tra un esercito regolare e una popolazione civile in balia degli eventi. Ogni parte in causa spende tutte le risorse retoriche di cui dispone per giustificarsi agli occhi dell’opinione pubblica, e di sé stessa se ci riesce, e per raccontare il conflitto in termini favorevoli alla propria agenda. Nessuno scandalo, lo si è sempre fatto: la guerra è sempre giusta per chi la fa. Fa differenza, piuttosto, quando si pretende di assumere il controllo della lingua stessa per modificare a proprio vantaggio il significato delle parole.»