[La Repubblica – 31 Ottobre 2011 – pag. 33]
Un bravo insegnante, raccontava una volta un grande psicoanalista come Moustapha Safouan, si riconosce da come reagisce quando, salendo in cattedra, gli capita di inciampare.
Cosa saprà fare di questo inciampo? Ricomporrà immediatamente la sua immagine facendo finta di nulla? Rimprovererà con stizza le reazioni divertite dei ragazzi? Nasconderà goffamente il suo imbarazzo? Oppure prenderà spunto da questo imprevisto per mostrare ai suoi alunni che la posizione dell’insegnante non è senza incertezze e vacillazioni, che non è al riparo dall’imprevedibilità della vita?
Potrà allora far notare che lo studio più autentico e appassionato non è mai esente dall’inciampo perché è proprio questo, come il fallimento, a rendere possibile la ricerca della verità. Certamente ci sono insegnanti che separano il sapere dalla vita e che offrono ai loro alunni solo una serie di nozioni nate già morte. In questi casi non c’è vita ma routine e un uso sterile del sapere.
Ma se esiste una vocazione all’insegnamento, non può che radicarsi nell’inciampo. E questo mostrano una serie di libri usciti in questo periodo che, nonostante tutto, sono dichiarazioni appassionate per la scuola e per chi tutti i giorni ci lavora e si dispera: da L’iguana non vuole di Giusi Marchetta (Rizzoli) a Ti voglio bene maestro! di Giuliano Corà (Angelo Colla Editore). Raccontano le loro difficoltà, gli errori, confessano le fragilità. E insieme rinnovano la voglia di andare avanti.
D’altra parte i bravi insegnanti sanno di cosa parlo; loro stessi sono inciampati almeno una volta prima di salire in cattedra e continuano ad educare i loro allievi alla contingenza imprevedibile della vita. Ricordiamo gli insegnanti che sono stati per noi degli inciampi che ci hanno sottratti alle nostre abitudini mentali e ci hanno fatto pensare in modo nuovo. Il nostro tempo favorisce invece l’assimilazione dell’insegnante ad un computer, ad un tecnico di un sapere senza corpo, totalmente disincarnato. Nel tempo in cui la rete sembra scalzare la funzione dell’insegnante offrendo un sapere a portata di mano e senza limiti, dobbiamo ricordare che essa non ha un corpo, non può animare l’erotica dell’apprendimento. Le possibilità della rete e la computerizzazione tecnologica dell’insegnamento sembrano invece coltivare l’illusione dell’esclusione del corpo dalla relazione didattica. Ma solo un cognitivismo esasperato può pensare di separare i processi di apprendimento dall’eros che abita da sempre ogni relazione formativa.
La psicoanalisi e la pedagogia più illuminata insistono su questo punto: le possibilità dell’apprendimento hanno come condizione l’eros del desiderio. Pensare di trasmettere il sapere senza passare dalla relazione con chi lo incarna è un’illusione perché non esiste una didattica se non entro una relazione umana. Coloro che vorrebbero ridurre il processo di apprendimento e di insegnamento alla trasmissione tecnologica e asettica di pratiche codificate cognitivamente e che ripongono la loro speranza nella definizione di un metodo efficiente di assimilazione e di organizzazione dei saperi, pretendono di cancellare l’intrusione del corpo nella relazione didattica e commettono un errore ossessivo in senso clinico.
Il bravo insegnante non è colui che nega il valore del sapere, non è colui che proclama il suo azzeramento, ma è colui che mentre lo trasmette sa anche mantenerlo sospeso. Questo doppio tempo della dinamica formativa lo ritroviamo nella vita quotidiana di ogni insegnante e di ogni allievo come oscillazione tra la necessità dell’applicazione, del metodo, dell’ostinazione, della fatica e del sacrificio e possibilità dell’erotizzazione del mondo attraverso il linguaggio, del desiderio di conoscenza, del viaggio, dell’avventura, dell’andare altrove, al largo, lontano, alla scoperta di altri mondi, verso l’inedito e il non ancora conosciuto.
Nel nostro tempo l’insegnante è sempre più solo. Questa solitudine non riflette solo la sua condizione di precariato sociale, ma anche la rottura di un patto generazionale coi genitori. Lo studio dello psicoanalista ne raccoglie i cocci: genitori sempre più complici e alleati di figli sempre meno riconoscenti e sempre più pretenziosi. Genitori che anziché sostenere l’azione educativa della scuola, di fronte al primo ostacolo, preferiscono spianare la strada ai loro figli, togliere gli ostacoli, evitare l’inciampo, per esempio cambiando scuola o insegnanti, insomma recriminando continuamente contro l’Altro come fanno i loro stessi figli.
Un tempo l’alleanza generazionale tra genitori e insegnanti non era mai in discussione. Il rischio era quello di giustificare derive autoritarie del processo educativo. Oggi però questa alleanza tende a dissolversi. L’ostacolo della differenza generazionale e dell’insuccesso scolastico viene vissuto solo come una frustrazione da evitare. In questo difficile contesto la domanda che assilla l’insegnante nella sua solitudine si radicalizza: come può continuare ad amare ciò che fa? come può resistere all’appassimento, all’accomodamento del sapere somministrato secondo gli standard stabiliti? come può tenere viva la passione che comporta la sua pratica?
I bravi insegnanti sanno rinnovare ogni giorno il loro desiderio solo perché conoscono le insidie della caduta nella noia e nella ripetizione e si impegnano a ricercare i giusti antidoti sopportando la solitudine che la sfaldatura del patto generazionale tra gli adulti comporta. Per questa ragione il tempo dell’inciampo resta essenziale perché mantiene sveglio l’insegnante stesso e, di conseguenza, impedisce anche ai suoi allievi di addormentarsi.
Un mio vecchio professore di filosofia commentando con il solito rigore e la sua chiarezza cristallina la Scienza della logica di Hegel, di tanto in tanto alzava gli occhi al cielo e ci diceva; “qui veramente non possiamo più seguire Hegel; chissà cosa avrà visto?”. Il mio vecchio professore di filosofia non aveva imbarazzo nell’inciampare sul testo che commentava perché sapeva bene che questo inciampare ci avrebbe aiutato ad autorizzarci a pensare con la nostra testa, cioè a cercare il nostro modo personale di inciampare sul testo.
Il bravo insegnante, nelle Scuole elementari come all’Università, è colui che non ha né paura né vergogna del suo non sapere, della sua ignoranza (che Cusano avrebbe definito “dotta”) perché sa che i limiti del sapere sono ciò che animano la spinta della conoscenza. E’ il grande peccato che racconta il mito biblico dell’albero della conoscenza. In cosa consiste? Nell’illusione umana di accedere al sapere come dominio, alla conoscenza assoluta del bene e del male, ad un sapere che pretende di essere padrone della vita, che pretende di escludere l’inciampo.