I cinquant’anni trascorsi dalla pubblicazione di questo libro hanno comportato, senza dubbio, delle trasformazioni: nuovi giocattoli sono stati messi in commercio ed anche quelli che si sono perpetuati nel tempo sono diventati, diciamo, più tecnologici. Si potrebbe anche obiettare che forme di controllo e di adeguamento a modelli sociali sono sempre esistite e che questo, probabilmente, è uno dei compiti da sempre attribuiti ai giocattoli. Mi sembra, però, che l’analisi sottile di Barthes metta in luce una peculiarità nuova dei giocattoli che, via via, si è dilatata ed accentuata: formare dei bambini “utenti”.
Roland Barthes, Miti d’oggi, Torino, Einaudi, 1974 (1957), traduz. it. di L. Lonzi, pp. 51-53
Che il francese adulto veda il Bambino come un altro se stesso, non c’è esempio che lo dimostri meglio del giocattolo francese. I giocattoli più diffusi sono essenzialmente un microcosmo adulto; sono tutti riproduzioni in formato ridotto di oggetti umani, come se agli occhi del pubblico il bambino non fosse in fondo che un uomo più piccolo, un Homunculus a cui si debbono fornire oggetti sulla sua misura.
Le forme inventate sono rarissime: solo qualche gioco di costruzione, fondato sul genio della piccola invenzione, propone forme dinamiche. Per il resto il giocattolo francese significa sempre qualcosa, e questo qualcosa è sempre interamente socializzato, costituito dai miti o dalle tecniche della vita moderna adulta: l’Esercito, la Radio, le Poste, la Medicina (astucci da medico in miniatura, sale operatorie per bambole), la Scuola, l’Aviazione (paracadutisti), i Trasporti (treni, Citroëns, Vedettes, Vespe, stazioni di servizio), la Scienza (giocattoli marziani).
Il fatto che i giocattoli francesi prefigurino letteralmente l’universo delle funzioni adulte può solo, evidentemente, preparare il bambino ad accettarle tutte, costituendogli, prima ancora che possa ragionare, l’alibi di una natura che da sempre ha creato soldati, “vespe” e impiegati postali. Il giocattolo fornisce così il catalogo di tutto ciò di cui l’adulto non si meraviglia: la guerra, la burocrazia, la sordidezza, i Marziani, ecc. D’altra parte, non è tanto l’imitazione che è segno di abdicazione quanto la sua letteralità: il giocattolo francese è come una testa ridotta di Jivaro, dove si ritrovano nella grandezza di una mela le rughe e i capelli dell’adulto. Esistono per esempio delle bambole in grado di orinare; hanno un esofago, si può dar loro il biberon, bagnano le fasce, presto, certamente, il latte nel loro ventre si trasformerà in acqua. Con questo si vuole preparare la bambina alla causalità domestica, “condizionarla ” al suo futuro ruolo di madre. Ma davanti a questo universo di oggetti fedeli e complicati il bambino può costituirsi esclusivamente in funzione di proprietario, di utente, mai di creatore; non inventa il mondo, lo utilizza: gli si preparano gesti senza avventura, senza sorpresa né gioia. Si fa di lui un piccolo padrone abitudinario che non deve neppure inventare le molle della causalità adulta; gli vengono fornite già pronte: lui non deve far altro che servirsene, non gli si dà mai un percorso da fare. Il più piccolo gioco di costruzione, purché non sia troppo ricercato, implica un apprendistato del mondo molto diverso: il bambino non vi crea affatto oggetti significativi, non gli importa che abbiano un nome adulto: non esercita un uso ma una demiurgica: crea forme che camminano, che rotolano, crea una vita, non una proprietà; gli oggetti vi si muovono da soli, non sono più una materia inerte e complicata nel cavo della mano. Ma questo è più raro: il giocattolo francese è generalmente un giocattolo d’imitazione, vuol formare dei bambini utenti, non dei bambini creatori.
L’imborghesimento del giocattolo non si vede soltanto dalle sue forme, tutte funzionali, ma anche dalla sua sostanza. I giocattoli correnti sono di una materia ingrata, prodotti di una tecnica, non di una natura. Molti, ora, sono stampati in complicati impasti; in essi la materia plastica ha un aspetto al tempo stesso igienico e grossolano, spegne il piacere, la dolcezza, l’umanità del tatto. Un segno costernante è la progressiva sparizione del legno, pur materia ideale per la sua solidità e tenerezza, per il calore naturale del suo contatto; sotto qualsiasi forma, il legno elimina il taglio degli angoli troppo vivi, il freddo chimico del metallo; quando il bambino lo maneggia e lo batte, il legno non vibra né stride, ha un suono sordo e netto insieme; è una sostanza familiare e poetica, che lascia il bambino in una continuità di contatto con l’albero, il tavolo, l’impiantino. Il legno non taglia, né si guasta; non si rompe, si consuma, può durare a lungo, vivere col bambino, modificare a poco a poco i rapporti fra l’oggetto e la mano; se muore lo fa riducendosi, non gonfiandosi come quei giocattoli meccanici che spariscono sotto l’ernia di una molla spezzata. Il legno fa oggetti essenziali, oggetti di sempre. Ora non si trovano quasi più di quei giocattoli di legno tipici lavori dei montanari, possibili, è vero, solo in un tempo d’artigianato. Il giocattolo ormai è chimico, di sostanza e di colore; il suo stesso materiale introduce a una sinestesia dell’uso, non del piacere. D’altronde simili giocattoli muoiono molto presto, e una volta morti non hanno per il bambino nessuna vita postuma.