Un libro della memoria, quello di Walter Benjamin, scrittore e critico letterario suicidatosi per evitare la Gestapo, fatto di frammenti pensati come luoghi. Lo scrittore, influenzato da Proust, di cui fu anche traduttore, tenta un recupero memoriale ma di segno molto diverso. Inquietudine, sgomento, stupita inappartenenza sono i sentimenti che queste letture fanno emergere. Il dimenticato non ritorna, le immagini infantili sono cangianti e fosche. Un incanto sull’orlo dell’abisso – con la consapevolezza che dall’infanzia parli il nostro essere attuale.
Walter Benjamin, Infanzia berlinese intorno al millenovecento. (Ultima redazione 1938), Torino, Einaudi, 2001 (traduzione di Enrico Ganni)
L’alfabetario
Non possiamo mai recuperare interamente quanto si è dimenticato. E questo forse è un bene. Lo shock del riavere sarebbe così distruttivo che dovremmo smettere all’istante di comprendere il nostro anelare. Così invece lo comprendiamo, e tanto meglio quanto più profondamente il dimenticato giace in noi. Come la parola perduta, che poco prima era ancora sulle nostre labbra, scioglierebbe la lingua come avvenne a Demostene, così il dimenticato ci appare carico di tutta la vita vissuta che ci promette. Forse, ciò che rende il dimenticato così carico e gravido altro non è se non la traccia di abitudini disperse nelle quali non potremmo più ritrovarci. Forse il ritrovarsi ai pulviscoli dei nostri involucri sgretolati è il segreto grazie al quale sopravvive. Come che sia – per ognuno ci sono cose che, più di altre, svilupparono in lui abitudini durature. Grazie ad esse si formarono le attitudini che contribuirono a determinare la sua esistenza. E poiché, per quel che riguarda me, esse furono il leggere e lo scrivere, nulla di ciò in cui mi imbattei nell’infanzia suscita più cocente nostalgia dell’alfabetario. Conteneva, impresse su piccole tavolette, le lettere dell’alfabeto, singolarmente, in caratteri gotici che le facevano apparire più giovani e anche più leggiadre di quelle stampate. Si adagiavano esili sul giaciglio inclinato, ciascuna in sé compiuta, e nella loro sequenza vincolate dalle regole dell’ordine – la parola – di cui erano sorelle. Restavo ammirato per come tanta modestia potesse coniugarsi con tanta magnificienza. Era uno stato di grazia. E la mia destra, che reverente cercava di conquistarlo, non riusciva nell’intento. Doveva restare fuori come il guardiano incaricato di lasciar passare gli eletti. Così il suo rapporto con le lettere fu pieno di rinunce. La nostalgia che risveglia in me, mostra quanto l’alfabetario sia stato tutt’uno con la mia infanzia. Ciò che in realtà cerco in esso è l’infanzia stessa: tutta l’infanzia, come si collocava nel gesto con il quale la mano inseriva le lettere nel listello in cui dovevano allinearsi a formare parole. La mano può ancora sognare quel gesto, ma non può mai più risvegliarsi per eseguirlo davvero. Allo stesso modo posso sognare come una volta imparai a camminare. Ma non mi serve a niente. Adesso so camminare; non posso più imparare a farlo.
In ritardo
L’orologio nel cortile della scuola sembrava danneggiato dalla mia colpa. Segnava “in ritardo”. E nel corridoio, attraverso le porte delle aule che sfioravo arrivava il brusio di una consultazione segreta. Là dietro maestri e alunni erano amici. Oppure c’era un gran silenzio, come se si aspettasse qualcuno. Cautamente posavo la mano sulla maniglia. Il sole inondava il punto dove esitavo. Così immolavo la mia giornata ancora acerba, e aprivo. Nessuno sembrava conoscermi o anche solo vedermi. All’inizio della lezione, il maestro aveva messo sotto sequestro il mio nome, come il diavolo aveva fatto con l’ombra di Peter Schlemihl. Non sarebbe più toccata a me. Buono buono, lavoravo con gli altri fino a quando suonava la campana. Ma nel farlo non c’era grazia.
Libri per ragazzi
Quelli che amavo di più provenivano dalla biblioteca scolastica. Nelle classi inferiori li assegnavano. Il maestro pronunciava il mio nome, e al di sopra dei banchi il libro partiva per il suo viaggio; un allievo lo spingeva all’altro, oppure si librava sopra le teste finché arrivava a me che avevo alzato la mano. Sulle pagine restava impressa l’impronta delle dita che lo avevano sfogliato. Il capitello che rifiniva la rilegatura e che sporgeva sopra e sotto era tutto sporco. In particolare però il dorso doveva averne passate di brutte; ecco perché le due metà della copertina si spostavano da sole e il taglio formava gradini e terrazze. E alle sue pagine erano talora appesi, come lunghi filamenti ai rami degli alberi, i fragili fili di una rete, in cui una volta mentre imparavo a leggere m’ero impigliato.
Il libro stava aperto sopra il tavolo troppo alto. Leggendo, mi tappavo le orecchie. Non c’era già stato un tempo in cui avevo sentito narrare senza voce? Non da mio padre però. Talvolta, d’inverno, quando nella calda stanza me ne stavo alla finestra, era invece il turbinio di neve a narrare così senza rumore. Non avevo mai capito con precisione cosa mi raccontasse perché troppo fittamente e incessantemente il noto si avvicendava all’ignoto. Avevo appena stretto amicizia con uno sciame di fiocchi, e già mi accorgevo come avesse dovuto cedermi a un altro che s’era improvvisamente mescolato al primo. Ora però era arrivato il momento di seguire, nel turbinio delle lettere, le storie che quando ero alla finestra mi si erano sottratte. I paesi lontani che vi incontravo danzavano confidenzialmente l’uno intorno all’altro come i fiocchi di neve. E poiché quando nevica la lontananza non ci conduce più verso l’esterno, ma verso l’interno, Babilonia e Bagdad, Akko e l’Alaska, Trombo e il Transvaal erano dentro di me. La mite aria da romanzone d’avventure che li pervadeva si insinuò nel mio cuore col sangue e il periglio, che restò per sempre fedele ai consunti volumi.
O restò fedele ai volumi più vecchi, irreperibili? E cioè a quelli meravigliosi che solo una volta in sogno mi fu concesso rivedere? Come si chiamavano? Sapevo solo che erano proprio questi libri scomparsi orami da tempo che non ero più riuscito a trovare. Adesso però erano in un armadio, che al risveglio mi resi conto di non aver mai visto prima. Nel sogno mi sembrava vecchio e familiare. I libri non erano disposti in verticale ma in orizzontale; e precisamente nell’angolo più minaccioso. In essi c’era aria di tempesta. Aprirne uno, mi avrebbe condotto nel bel mezzo del grembo in cui, cangiante e fosco, si rannuvolava un testo gravido di colori. Erano gorgoglianti e sfuggenti, sempre trapassavano in un violetto che sembrava provenire dalle viscere di un animale macellato. Innominabili e carichi di significato come quell’esecrabile violetto erano i titoli, ciascuno dei quali mi sembrava più bizzarro e più familiare del precedente. Ma prima ancora di potermi impadronire anche di uno soltanto di essi, mi ridestavo senza aver sfiorato, neppure in sogno, i vecchi libri per ragazzi.
Il calzino
Il primo armadio che si apriva quando volevo, era il comò. Dovevo solo tirare il pomello e dalla serratura l’anta scattava verso di me. Fra tutte le camicie, grembiuli, magliette che vi erano custodite c’era la cosa che trasformava il comò in un’avventura. Dovevo farmi strada nell’angolo più riposto; allora incontravo i miei calzini, che se ne stavano l’uno accanto all’altro, arrotolati e rincalzati come si usava un tempo. Ogni paio aveva le sembianze di una piccola borsa. Nessun piacere era più grande dell’immergere la mano quanto più a fondo possibile nel suo interno. Non lo facevo per il tepore. Ad attirarmi verso il fondo era “il regalo” che avevo sempre in mano in quell’interno arrotolato. Quando lo tenevo ben saldo in pugno ed ero certo del possesso della tenera massa lanosa, aveva inizio la seconda fase del gioco che portava alla rivelazione. Ora infatti mi accingevo a estrarre “il regalo” dalla sua borsa lanosa. Lo tiravo sempre più verso di me, sino a quando lo sconcerto era al colmo: avevo estratto “il regalo”, ma “la borsa” in cui era stato custodito non c’era più. Ripetevo di continuo la dimostrazione di questo avvenimento. Mi insegnò che forma e contenuto, custodia e custodito sono la stessa cosa. Mi educò a estrarre la verità dalla poesia con la stessa cautela con cui la mano infantile estraeva il calzino dalla “borsa”.