Questa è una delle dieci lettere che Rilke scrisse al giovane poeta Franz Xaver Kappus – nove tra il febbraio 1903 e il novembre 1904 e l’ultima nel Natale del 1908. Un giovane si apre totalmente ad un adulto, che mostra nei suoi confronti un interessamento affettuoso e partecipe. È una situazione eccezionale, certo. Ma è anche un invito a tutti gli adulti di sempre: l’invito ad assumersi la responsabilità di fare da guida ai giovani, con la voce di un’esperienza maturata nel tempo e senza cedere ad una facile accondiscendenza – “Per questo è così importante essere solitari e attenti, quando si è tristi”.
R. M. Rilke, Lettere ad un giovane poeta, a cura di M. Bistolfi, Milano, Mondadori, 1997, pp. 81-88
“Borgeby gård, Flädie, Svezia, 12 agosto 1904
Voglio tornare a parlarle per un poco, caro signor Kappus, benché non possa dire quasi nulla che le sia di aiuto, appena qualcosa di utile. Lei ha avuto molte e grandi tristezze, che poi sono passate. E dice che anche quel passare fu per lei greve e sconfortante. Però, la prego, rifletta se quelle grandi tristezze non l’abbiano piuttosto trapassata. Se non si siano trasformate molte cose in lei, se in qualche luogo, in qualche parte del suo essere, lei non sia cambiato, mentre era triste. Pericolose e cattive sono solo le tristezze che portiamo tra la gente per sopraffarle; come malattie trattate in modo superficiale e sciocco, esse non fanno che arretrare per erompere, dopo una breve pausa, tanto più virulentemente; e si ammassano nell’intimo e sono vita, sono vita non vissuta, svilita, perduta, di cui si può morire. Potessimo vedere oltre il nostro sapere, e anche un poco oltre il baluardo del nostro presagire, forse allora sopporteremmo le nostre tristezze con più fiducia delle nostre gioie. Poiché esse sono i momenti in cui qualcosa di nuovo è subentrato in noi, qualcosa di ignoto; i nostri sentimenti ammutoliscono in timido imbarazzo, tutto in noi arretra, si fa silenzio, e il nuovo, inconoscibile, vi sta nel mezzo e tace.
Io credo che quasi tutte le nostre tristezze siano momenti di tensione che noi sentiamo come paralisi perché non udiamo più vivere i nostri storditi sentimenti. Perché siamo soli con l’intruso in noi; perché per un istante ogni cosa consueta e familiare ci è sottratta; perché siamo nel pieno di una transizione, dove non è possibile arrestarsi. Per questo la tristezza passa: il nuovo in noi, il sopraggiunto, si è introdotto nel nostro cuore, è penetrato nella sua camera più interna, e non è neppure lì – è già nel sangue. E noi non conosciamo cosa fosse. Facile sarebbe indurci a credere che non sia accaduto nulla; eppure noi ci siamo trasformati, come si trasforma una casa in cui è entrato un ospite. Noi non sappiamo dire chi sia giunto, né forse lo sapremo mai, ma molti segni sembrano indicare che il futuro si introduce in noi in questo modo, per trasformarsi in noi prima del suo avvento. Per questo è così importante essere solitari e attenti, quando si è tristi: perché l’istante in apparenza vuoto e fermo, in cui il nostro futuro accede a noi, è tanto più vicino alla vita di quell’altro momento chiassoso e casuale in cui esse, come da fuori, sopravviene. Più siamo quieti, pazienti e aperti quando siamo tristi, tanto più profondo e tanto più sicuro entra in noi il nuovo, tanto meglio lo acquisiamo, tanto più sarà il nostro destino, e lui ci sentiremo, il giorno che ‹‹accadrà›› (cioè uscirà da noi incontro agli altri), affini e prossimi nell’intimo. È necessario. È necessario – e sarà questo a poco a poco il fine della nostra evoluzione – che non subiamo nulla di estraneo, ma solo quello che da tempo ci appartiene. Quante idee di movimento si sono già dovute ripensare; col tempo si imparerà anche a riconoscere che quello che noi chiamiamo destino esce dagli uomini, non li compenetra da fuori. […]
Il futuro è fisso, caro signor Kappus, ma noi ci muoviamo nello spazio infinito.
Come potremo avere vita facile?
E tornando a parlare della solitudine, appare sempre più evidente che in fondo non è cosa che si possa prendere o lasciare. Noi siamo soli. Possiamo ingannarci su questo e fingere che non sia così. Nient’altro. Ma quanto è meglio renderci conto che lo siamo, e anzi partire da questo. Allora certo saremo presi da vertigine; poiché tutti i punti sui quali il nostro sguardo soleva riposare ci sono tolti, non vi è più nulla di vicino, e ogni lontananza sfuma nell’infinito. Chi dalla sua stanza, quasi senza preparazione e progressione, venisse posto sulla cima di un’alta montagna, dovrebbe provare un sentimento affine: una insicurezza senza pari, un senso di abbandono all’indicibile quasi lo annienterebbe. Gli parrebbe di cadere o si crederebbe scagliato nello spazio o dilaniato in mille pezzi: quale enorme menzogna dovrebbe inventare la sua mente per ritrovare e chiarire lo stato dei suoi sensi. Così muta, per colui che diviene solitario, ogni distanza, ogni misura; di questi mutamenti ne avvengono d’un tratto molti, e come per quell’uomo in cima al monte si creano allora inusitate fantasie e strane sensazioni, che paiono crescere oltre ogni sopportazione. Eppure è necessario che viviamo anche questo. Dobbiamo immaginare la nostra esistenza quanto più vasta possibile; tutto, anche l’inaudito, deve trovarvi spazio. È questo in fondo l’unico coraggio che si richieda a noi: essere coraggiosi verso quanto di più strano, prodigioso e inesplicabile ci possa accadere. Che gli uomini in tal senso siano stati vili, ha arrecato alla vita infinito danno; […]. Ma l’angoscia dell’inesplicabile non ha solo impoverito l’esistenza del singolo; anche le relazioni tra uomo e uomo ne sono state limitate, come tratte da un alveo di infinite possibilità su una riva incolta, dove nulla accade. Poiché non è solo la pigrizia a far sì che le relazioni umane si ripetano così indicibilmente monotone e senza novità da caso a caso: è il timore di una qualche nuova, imprevedibile esperienza, di cui non ci si crede all’altezza. Ma solo che è pronto a tutto, chi non esclude nulla, neppure il più grande degli enigmi, vivrà la relazione con un altro come cosa viva e sfrutterà fino in fondo anche la propria esistenza. Poiché se noi pensiamo questa esistenza individuale come un ambiente più o meno grande, si vedrà che i più imparano a conoscere solo un angolo del loro ambiente, un posto alla finestra, una striscia, su cui essi vanno avanti e indietro. Così provano una certa sicurezza. Eppure quanto è più umana quella insicurezza irta di pericoli, che spinge i prigionieri nelle storie di Poe a esplorare tentoni le forme delle loro atroci carceri e a non essere estranei agli indicibili errori di quel loro stare. Noi però non siamo prigionieri. Non trappole e lacci sono tesi intorno a noi, e non vi è nulla che ci debba angosciare o tormentare. Siamo posti nella vita come nell’elemento cui siamo conformi, e inoltre, per millenario adattamento, ci siamo fatti così simili a questa vita che, se rimaniamo quieti, per un felice mimetismo ci distinguiamo appena da tutto ciò che ci sta intorno. Non abbiamo motivo di diffidare del nostro mondo, poiché esso non è contro di noi. Se vi sono orrori, allora sono i nostri orrori, se vi sono abissi, allora quegli abissi ci appartengono, se vi sono pericoli, allora dobbiamo cercare di amarli. E se solo organizziamo la nostra vita secondo quel principio che ci ingiunge di attenerci sempre al difficile, allora ciò che adesso ci appare ancora totalmente estraneo ci diverrà del tutto familiare e fido.
[…]
Non si osservi troppo. Non tragga conclusioni troppo rapide da quello che le accade; lasci semplicemente che le accada. Altrimenti le sarà fin troppo facile guardare con rimprovero (intendo moralmente) al suo passato, che come è naturale è compartecipe di tutto quello che le sta accadendo.
[…]
Ricorda come questa vita anelava di uscire dall’infanzia verso i ‹‹grandi››? Ora la vedo anelare via dai grandi verso i più grandi. Per questo continua a essere difficile, ma per questo continuerà anche a crescere.
E se ancora devo dirle una cosa, è questa: non creda che colui che cerca di confortarla viva senza sforzo tra le semplici e quiete parole che talvolta recano sollievo. La sua vita è colma di pena e di tristezza, e resta molto indietro a lei. Se però fosse altrimenti, non avrebbe mai potuto trovare quelle parole.
Suo
Rainer Maria Rilke”