Il brano è parte di una monografia: una breve storia di una realtà educativa narrata da una maestra che lavora, alla fine degli anni Sessanta, in una classe della periferia parigina.
È il racconto di una quotidianità simile a tante altre che appare banale, non accattivante e con un finale che non appaga – ma anche le situazioni più usuali possono essere dense di significati.
A. Vasquez, F.Oury, L’educazione nel gruppo classe. La pedagogia istituzionale, Bologna, EDB, 1975, pp. 196-199.
Una scuola nuova di 14 classi in un grande complesso della periferia nord. Il mio corso elementare, 2° anno, è l’unica classe della scuola che utilizza le “tecniche educative”: le 36 bambine possono esprimersi nella conversazione del mattino e con i testi liberi; lavorano a gruppi, partecipano alla gestione della classe… La collaborazione è quasi permanente. Tuttavia l’esistenza di programmi, di una classe parallela, il numero delle alunne, fanno sì che io debba imporre buona parte del lavoro individuale: è essenziale controllare l’acquisizione dei meccanismi nelle bambine, che l’anno prossimo dovranno passare al corso medio.
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A metà novembre arriva nella mia classe una piccola della Martinica, di 10 anni, che ripete.
Soltanto a metà dicembre riesco a vedere la madre: “Gli occhiali? mio marito non ha tempo. Alice è molto dura. Bisogna tenerla in classe. Io sono malata di cuore e non ce la faccio. E poi ne ho bisogno a casa.”
Deve essere vero: gli occhiali arriveranno solo alla fine di marzo e Alice mancherà 90 giorni durante l’anno.
La mia classe di “Tecniche educative” è all’inizio e questa bambina strana mi imbarazza.
Mi sconcerta con le sue fasi.
Ora è aggressiva e si immischia in tutto: “Perché fai le operazioni? Non avresti dovuto tirare dei tratti. È Jacqueline che ti ha preso la matita”.
Un momento si agita, fa cadere, manda a quel paese le altre; un altro è, al contrario, immobile, perduta nei suoi sogni. Trasale: “Cosa c’è?” se sente il suo nome.
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I tentativi che faccio per inserirla in un gruppo terminano sempre o in litigi, che giustificano un abbandono spettacolare, o in una ritirata discreta.
Alice ritorna allora alla sua tavola, un po’ appartata e si tiene occupata. Copia e ricopia un esercizio già fatto. Ha scritto testi che rifiuta di presentare e li fa leggere ad altre.
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8 febbraio: legge.
“Domenica siamo andati alla Torre Eiffel, era divertente perché si vedeva Parigi tutta piccolina. Mio fratello mi dice: “Sono contento, stasera faccio il bagno”. Io rispondo: “Non è ancora il momento”. Arriva la sera. Papà dice: “È tempo di tornare a casa”… Mio fratello si spoglia… l’acqua è calda. Mamma gli ha lavato la testa e lui ha gridato”.
Il testo viene scelto. Non per il suo interesse né per la sua bellezza. Forse la classe sentiva che era necessario occuparsi di Alice?
Era il tempo in cui diceva: “Sì, ne ho abbastanza, tutti sono contro di me!”.
Ora Alice presenta i suoi testi da sé.
Che sia in fase agitata o in fase sognante, cerca di partecipare al lavoro di équipe. Partecipazione limitata: sparisce spesso prima della fine del lavoro, ma è riuscita a finire una tiratura.
Comincia a dire noi per parlare della équipe o della classe.
È riuscita, Alice, a risolvere il suo problema: l’inserimento in un nuovo ambiente? O è riuscita ad uscirne facendovi entrare gli altri?
Soltanto ora mi comunicano la scheda scolastica di Alice: “Bambina instabile, nervosa, squilibrata, insopportabile”.
L’anno dopo Alice è in un corso medio del tutto tradizionale.
L’insegnante non capisce perché la sua scheda reca la dicitura INSTABILE.
La direttrice mi dice: “È curioso: fa progressi molto più rapidi che da lei l’anno scorso”.
Allora tanto meglio.