Giugno è tempo di esami; quello di Claudine si verificò alla fine dell’Ottocento (e il libro fu pubblicato nl 1900). Mostra, quindi, caratteristiche che possono apparire difformi rispetto a quelli attuali. Allora perché proporlo? Perché la descrizione beffarda e impertinente di Claudine può diventare un efficace antidoto nei confronti dell’implacabile rituale allestito dai media per questa ricorrenza: ogni anno sono stilati elenchi, sempre uguali, di consigli sull’alimentazione, sull’abbigliamento, sulle modalità di preparazione, sui ritmi di studio più appropriati; si rincorrono le stesse opinioni – l’esame serve, non serve, è troppo severo, non è per niente selettivo – e si diffonde l’immancabile voce di tracce conosciute in anticipo.Colette, Claudine a scuola, Milano, Rizzoli, 1991, traduzione di Laura Marchiori, pp. 142-169
…arriviamo in tempo per vedere una fila di uomini scuri non belli, che entrano nel vecchio edificio, solenni e muti. Dietro di loro saliamo la scala col chiasso di uno squadrone, essendo più di sessanta, ma, subito al primo piano, ci fermano sulla soglia di un’aula abbandonata: bisogna lasciare che si installino quei signori. Siedono a un gran tavolo, si asciugano il sudore e deliberano. Che cosa? Sull’utilità di farci entrare? Ma no, sono sicura che si scambiano impressioni sulla temperatura e chiacchierano dei loro piccoli interessi, mentre ci trattengono a stento sul pianerottolo e la scala dove straripiamo.
Dalla prima fila posso osservare questi essere eccelsi; uno spilungone brizzolato, con l’aria mite da nonnino; il buon papà Sallé, storto e gottoso, dalle mani simili a sarmenti; un grassone basso, col collo stretto in una cravatta dalle tinte cangianti, degna di Rabastens stesso: è Roubaud, il terribile che domani interrogherà in scienze.
Finalmente si sono decisi dirci di entrare. Riempiamo la vecchia brutta sala dalle pareti di stucco indicibilmente sporche, deturpate da iscrizioni e da nomi di scolare: anche i banchi sono orribili, tagliuzzati, neri e viola a causa dei calamai rovesciati in passato. È una vergogna relegarci in una simile stamberga.
Uno di quei signori procede alla distribuzione dei posti: tiene in mano una lunga lista e mescola con cura tutte le scuole, separando il più possibile le scolare di uno stesso mandamento, per evitare suggerimenti. (Non sa dunque che si può sempre trovare il mezzo di suggerire?). [….]
Roubaud va in giro a distribuire certi grandi fogli timbrati in azzurro nell’angolo sinistro, e le ostie per sigillare. Conosciamo tutte queste operazioni: bisogna scrivere nell’angolo il proprio nome, con quello della scuola dove abbiamo fatto gli studi, poi piegare e sigillare quell’angolo.
(Tanto per rassicurare tutti sulla imparzialità dei giudizi.)
Compiuta la formalità, aspettiamo che si decidano a dettarci qualcosa. Guardo attorno a me i visetti sconosciuti, dei quali parecchi mi fanno pietà, tanto sono sconvolti e ansiosi.
Un sussulto. Roubaud ha parlato fra il silenzio generale: “Prova di ortografia, signorine: non ripeto che una sola volta la frase che detto”. Incomincia a dettare passeggiando per la classe. […]
Hanno ficcato in mezzo qualche participio, teso tranelli di plurali ambigui, in questo dettato che non ha più nessun senso, tanto hanno reso contorte e irte di difficoltà tutte le frasi. È puerile! […]
“Tema – Esponete le riflessioni e i commenti che vi ispirano queste parole di Crisale: ‘Che importa che essa tradisca le leggi di Vaugelas,’ eccetera.
Per una fortuna davvero insperata non è un argomento troppo stupido, né troppo ingrato. Sento attorno a me domande ansiose e disperate, perché la maggior parte di queste ragazze non sanno chi sia Crisale, né le “Donne sapienti”. Combineranno bei pasticci! Non posso fare ameno di riderne sin da ora. Preparo una breve dissertazione non troppo sciocca, costellata di citazioni varie per dimostrare che conosco abbastanza Molière. È piuttosto scorrevole, finisco col non pensare più a quello che succede attorno a me. […]
Mi attardo con cura a scrivere la conclusione; sviluppo certe idee che piaceranno e che dispiacciono a me. […]
Nel vecchio cortile le candidate sono oggi molto meno numerose: ne sono rimaste tante per strada fra lo scritto e l’orale! (È un bene: quando ne passano molte agli scritti, ne bocciano molte agli orali.) La maggior parte, palliducce, sbadigliano nervosamente e si lamentano come Marie Belhomme, di sentirsi contrarre lo stomaco… che brutta tremarella!
Si apre la porta davanti agli “uomini neri” […]
“Signorina Claudine!”
Mi chiama il vecchio Lerouge. Ahimè! L’aritmetica… È una fortuna che abbia un’aria paterna… Vedo subito che non mi nuocerà.
“Vediamo, figlia mia, mi dirà qualcosa sui triangoli rettangoli?”
“Sì, professore, sebbene loro non mi dicano un gran che. “
“Via, via! Li vuol far passare per più cattivi di quanto siano. Vediamo, mi costruisca un triangolo rettangolo su questa lavagna e gli dia le dimensioni; poi mi farà il piacere di parlare del quadrato dell’ipotenusa…”
Bisognerebbe tenerci proprio per riuscire a farsi bocciare da un uomo come questo! Quindi sono più mansueta di un agnellino dal collare rosa, e dico tutto quello che so. È presto fatto d’altronde.
“Ma va benissimo! Mi dica anche come si riconosce che un numero è divisibile per nove, e la lascio libera.”
Io spiattello: “ La somma delle cifre… condizione necessaria… sufficiente”.
“Se ne vada, figlia mia, basta.”
“Signorina Claudine!” esclama una voce dietro a noi. Ah, ah è Roubaud. […]
“Mi vuol dire come farebbe per procurarsi un po’ d’inchiostro?”
“Dio mio professore, ci sono tanti modi; il più semplice sarebbe ancora quello di andare a chiederlo dal cartolaio all’angolo…”
“Questa spiritosaggine è divertente, ma non basterebbe a farle avere un bellissimo voto… Cerchi di dirmi con quali ingredienti farebbe l’inchiostro.”
“Noce di galla… tannino… ossido di ferro… gomma…”
“ Non sa le proporzioni?”
“No”
“Peggio per lei! Può parlarmi della mica?”
“ Non ne ho mai vista, se non nei portelli delle stufe.”
“Davvero? peggio per lei ancora una volta! Di che cosa è fatta la mina delle matite?”
“Di grafite, un minerale tenero che si sega a bacchettine e che si rinchiude nelle due metà di un cilindro di legno.”
“È il solo uso della grafite?”
“Non ne conosco altri.”
“Peggio per lei, sempre! Se ne fanno soltanto matite?”
“Sì, ma se ne fanno molte; ve ne sono miniere in Russia, credo. In tutto il mondo si consuma una quantità straordinaria di matite, soprattutto gli esaminatori che schizzano il ritratto delle candidate sul loro taccuino…”
(Arrossisce e si agita.)
“Passiamo all’inglese.”
E aprendo una piccola raccolta di racconti di miss Edgeworth:
“Mi traduca qualche frase”.
“Tradurre, sì, ma leggere… è un’altra cosa!”
“Perché?”
“Perché la nostra insegnante d’inglese ha una pronuncia ridicola; io non so pronunciare altrimenti.”
“Via, che cosa importa?”
“Importa che non mi piace essere ridicola.”
“Legga un po’, la farò smettere subito.”
Leggo, ma a voce bassissima, abbozzando appena le sillabe, e traduco le frasi prima di aver articolato le ultime parole. Roubaud, suo malgrado, scoppia dalle risa per la mia gran sollecitudine di non voler dimostrare l’insufficienza in inglese, e ho voglia di graffiarlo. Come se fosse colpa mia!
“Va bene. Vuol dirmi qualche verbo irregolare con le forme dell’imperfetto e del participio passato?”
“To see, vedere, saw, seen; to be, essere, was, been; to drink, bere, drank, drunk: to…”
“Basta, grazie. Buona fortuna, signorina.”
“Lei è troppo gentile, professore.”
Ho saputo l’indomani che quell’elegante ipocrita mi aveva affibbiato un bruttissimo voto, tre punti sotto la media, di che farmi bocciare, se i voti degli scritti, soprattutto il componimento, non avessero perorato in mio favore.