Qualche sera addietro una buona conoscente, persona colta e civile, nel corso di una conversazione ha usato il termine “mongolo” – per riferirsi a un’altra persona, con il consueto intento blandamente dispregiativo. Non ho commentato nulla, con vile rassegnazione. Così come talvolta mi è capitato anche in classe di rinunciare, per viltà o per quieto vivere, a riprendere questo o quel ragazzo che faceva uso con gioiosa leggerezza dell’aggettivo – in fondo, cercavo di convincermi, è una classe difficile, e io devo fissare delle priorità. Mi sono chiesto però se anche in altri paesi – nei vicini europei, ad esempio – sia così diffuso un analogo costume. Del nostro si può dire senza tema di smentita che siamo il paese dei mongoli e dei culattoni.
Sarà per questo che non mi piace la moda tanto diffusa di criticare il “politicamente corretto”, l’insofferenza un po’ snob verso le presunte costrizioni di un linguaggio controllato. Mi sembra una reazione a un costume di rispetto e di civiltà che in realtà siamo ben lontani dall’aver raggiunto: un atteggiamento “reazionario”, come si sarebbe detto in tempi più scorretti.