Una pagina saggistica di Anna Maria Ortese, nella quale la scrittrice riflette sul bisogno del bambino di ottenere i mezzi per esprimersi. Da leggere mentre davanti a noi dei bambini fanno castelli di sabbia?
All’adulto, e ai popoli molto colti, tutto il mondo è il mondo dell’ovvio, del luogo comune. L’uomo, perciò, applica i suoi cartellini col prezzo e, occorrendolo, le informazioni sulla merce, sull’uso, dovunque. Questo è un campo, questo è l’oceano, questo è un cavallo, questa è la propria madre, questa è la bandiera nazionale, questi sono due ragazzini. Ma per il fanciullo, e l’adolescente, e anche per un certo tipo di artista – un po’ meno di scrittore – non è così! Dovunque egli s’inoltri, tutto risplende di una luce senza origine. Ogni cosa che egli tocca – la bandiera, un cavallo, l’oceano, scotta e lo folgora di stupore. Egli capisce ciò che l’adulto non capisce più: il mondo è un corpo celeste, e tutte le cose, nel mondo e fuori, sono di materia celeste, e la loro natura, e il loro senso – tranne una folgorante dolcezza – sono insondabili. Ogni cosa che il ragazzo tocca o vede passare, lo fa piangere; chiede inutilmente alla ragione o ai superiori una spiegazione sul perché o il come di tali magnificenze; di solito i superiori (maestri e genitori compresi) non sono più informati e attenti di un calamaio. Il ragazzo è solo. Il suo approssimarsi – e poi la caduta, spesso uno scontro con la terra e il mondo cosiddetto reale – avviene così. E’ un’estasi, o un impatto. Avere in queste circostanze, mezzi espressivi, essere educati a usare questi mezzi, potrebbe voler dire essere forniti di un paraurti, o un paracadute. Significherebbe entrare nel mondo – del reale – per il verso giusto e proprio all’anima dell’uomo, che è il fatto creativo. Quando ciò non avviene, e il bambino entra nel mondo esclusivamente attraverso la proprietà di oggetti di mercato, in lui resta un’ansia, un vuoto, che spesso si fa amara insoddisfazione – sebbene egli abbia tutto – o ira. Perché nella sua educazione, o nascita al mondo, è mancato l’apporto della sua propria invenzione e creatività. Egli ha trovato tutto già fatto. E il tutto fatto- da altri – che lo distruggerà, come un muro vuoto, egli, da quando si accorgerà della propria amputazione fantastica, o creativa, vorrà distruggere. Così, ho sempre pensato che il problema massimo del mondo – e della sua pace, anche se relativa – sia avere dei bambini in grado di entrare nel mondo cosiddetto adulto creando, essi stessi, e non, invece, appropriandosi distruggendo. Creare è una forma di maternità: educa, rende felici e adulti in senso buono. Non creare è morire, e, prima, irrimediabilmente invecchiare.
Anna Maria Ortese, Dove il tempo è un altro, in Corpo celeste, Milano, Adelphi, 1997