E. Affinati, La città dei ragazzi, Milano, Mondatori, 2008, pp. 213, € 17,00
La Città dei ragazzi è un luogo reale, fondata a Roma, nel 1953 da John Patrick Carrol-Abbing.
“I minorenni, ospiti della Città dei ragazzi, crescono, imparano un mestiere, si sposano, hanno dei figli. Ma nessuno di loro dimentica la Repubblica, l’Assemblea, i campi di calcio, i laboratori, la scuola, gli amici. All’inizio erano tutti italiani: avevano gli occhi di mio padre, parlavano la nostra lingua, arrivavano dalle povere strade del dopoguerra coi calzoni corti, le smorfie precoci, la fame scandalosa; se andava bene, uscivano con le piaghe rimarginate. Adesso hanno la pelle di tutti i colori. Mischiano lo slavo al romanesco, l’arabo al gergo sportivo, il parsi all’inglese. Vanno e vengono, a getto continuo. Continueranno ad affluire anche quando noi saremo morti” (p.188)
Questo luogo come crocevia di percorsi: dei ragazzi che provengono da tutte le parti del mondo quelle più martoriate e misere, e che, qui, tentano di ricostruire una possibilità d’esistenza futura, del loro insegnante che sente di dover riscattare e rielaborare il dolore del padre figlio illegittimo e orfano di madre, di Omar e Faris, due adolescenti marocchini, che, accompagnati dal loro professore, tornano nel proprio paese, dopo anni di assenza, alla ricerca, delle proprie radici che è, anche, di un senso da dare alla propria esistenza.
Ed è per questo che nel libro costantemente s’intersecano momenti di vita in classe, l’esperienza del viaggio in Marocco, il ricordo del rapporto con il padre che diviene dialogo con lui, morto.
“Questa è la storia di un viaggio all’indietro: sono partito dallo spazio magnetico in cui vivo, fra banchi e gessi, ho risalito i campi delle fughe solitarie, ancora cosparsi dalla putredine dei sogni che i miei scolari hanno lasciato lungo il percorso, e ora eccomi qui a dettare il saldo conclusivo. Abbiamo radici in comune: quello che succede a te, riguarda anche me….Non godere della vicinanza dei propri genitori, per un motivo o per l’altro, apre un grande spazio d’azione dove, prima o poi, nel fiorire malato delle innumerevoli scelte da compiere, potremmo smarrirci…
A cinquant’anni un uomo senza figli può desiderarne uno; io invece, spinto da una potenza oscura che brucia come un fuoco segreto dentro il mio stesso nome, cercavo i padri: quelli mancati, soprattutto. Pensai di scrutarne le fisionomie nei volti dei giovani ai quali insegno ogni giorno. Arrivano sulle sponde del Bel Paese da ogni parte del mondo lasciandosi dietro come rottami, la povertà e l’indifferenza. Ho voluto risalire il fiume che li ha portati fino a me. Controcorrente, attraverso di loro, mi sono riconosciuto.” (pp. 139-140)
Un viaggio, quello dell’autore, nella propria interiorità che è anche il modo per accostarsi a quella dei suoi allievi, di penetrarne le ferite e le speranze di riscatto