“CARO MICHELE, si è fatto un gran parlare, in questi giorni, dell’ultimo libro di Daniel Pennac, Diario di scuola. A quel che si dice, una ‹‹riabilitazione dei somari››. Lo stesso Pennac parla, in un’intervista, della ‹‹solitudine dello studente che non capisce ››. Io amo Pennac, la sua prosa, i suoi personaggi stralunati ma così vivi che sembra di averli in casa, ma credo che stavolta abbia preso un granchio. Credo che bisognerebbe forse parlare della ‹‹solitudine del secchione››, la solitudine che attanaglia a volte chi capisce…Ho 24 anni, mi sto specializzando in psicologia…, ma non sono così lontano dai miei anni di liceo da non ricordare quanto i ‹‹non integrati›› non fossero certo i ‹‹somari››, ma chi, come me provava piacere nello studio. …”
Si tratta di una lettera a Michele Serra, che così conclude nella risposta:
“…somari e secchioni sono gli ‹‹eccedenti ›› di una scuola (e di una società) che lavora per la medietà. Il secchione è deriso, esattamente come il somaro, perché scompagina l’ordinato flusso della mediocrità sociale: …”
Sul momento condivido questa conclusione che mi pare così ben fotografare la realtà. Poi, comincio a divagare, in un monologo che procede a sprazzi, per imprevisti richiami.
“L’equivoco dell’astrazione si mostra precisamente in tutte le questioni che riguardano l’esistenza, dove l’astrazione scansa le difficoltà trascurandole, per poi vantarsi di spiegare tutto.”
(S. Kierkegaard, Postilla conclusiva non scientifica, a cura di C. Fabro, Bologna, Zanichelli, 1962, vol. II, p. 110)
Mi rendo conto che è un giudizio che eccede per sproporzione (è una critica al sistema filosofico hegeliano), tuttavia, in qualche modo, si attaglia a quello che sto cominciando a pensare: in qualsiasi generalizzazione si perde in un blocco squadrato e uniforme la singolarità delle esistenze.
“I nostri sguardi erano fissi sul nuovo venuto che se ne stava immobile e composto, senza mostrare alcun segno di nervosismo o timidezza. In un certo senso sembrava più vecchio e più maturo di tutti noi, tanto da farci dubitare che si trattasse solo di un futuro allievo.”
(F. Uhlman, L’amico ritrovato, trad. di M. G. Castagnole, Torino, Loescher, 1986, p. 32)
Forse saranno pochi gli allievi che l’incarnano, ma esiste la solitudine altera di chi eccelle senza sforzo e sembra disdegnare la comunanza con altri, non suscita derisione, ma ammirazione invidiosa mista alla speranza di una benevola attenzione.
Mi viene in mente che anche fra gli ultimi della classe possono non albergare solitudine ed impotenza, se fanno del rifiuto per lo studio uno dei contrassegni della loro superiorità che si afferma con la prepotenza e il disprezzo e che si compiace di un consenso gregario.
“… un ragazzo alto con la carnagione color marrone sacchetto- di-carta si tirò su i jeans a vita bassa ed esclamò: ‹‹Due Emme, yò!››, allargando due dita in segno di vittoria, mentre l’altra mano era occupata in un’imitazione stilizzata della M. Le repliche arrivarono immediate e fragorose. ‹‹Evvai!››, ‹‹Bella, sì!››”
(ZZ Packer, Regina Pacis, in id. Bere caffè da un’altra parte, trad. di E. Monti, Milano, Isbn Edizioni, 2006, p. 77)
Vi sono, poi, tutte le sfaccettature di chi si trova nella parte mediana della curva di Gauss tra il precipizio dei somari e quello degli eccellenti.
“Lo vedemmo lavorare con coscienza, ricercando tutte le parole nel vocabolario, dandosi un gran daffare. Dovette certamente alla buona volontà che dimostrò di non essere retrocesso alla classe inferiore, perché, se sapeva passabilmente le regole, non aveva molta eleganza nel periodare.”
( G. Flaubert, La signora Bovary, in id., Romanzi, trad. di G. Lazzeri, Milano, Mursia, 1984, Vol. I, p.237)
Vi è la solitudine di chi si trova in bilico tra il cinque e mezzo e il sei meno meno, tra la possibilità di salvarsi è quella di precipitare giù nel baratro degli ultimi. Che vorrebbe modificare il suo stato, arrivare ad una confortevole medietà, che cancelli dagli sguardi degli altri, compagni e insegnanti, la sentenza che risiederà per sempre in quella zona grigia.
Ma non sempre è così. Non si sente solo chi vivacchia nello stesso grigiore perché ben altre cose lo attraggono ed impegnano. È allegro e ben visto dai compagni.
“Vuole un dieci o un’alpha o il cento per ogni tentativo che fa, e un grande Eccellente! sul margine. Ridicolo! Infantile! Non c’è bisogno che glielo dicano: lo vede da sé.”
(J. M. Coetze, Gioventù, trad. di F. Cavagnoli, Torino, Einaudi, 2004, p. 172)
Vi è solitudine, sembra strano, anche fra i discreti, quelli del sette, sette e mezzo, che lottano tenacemente per voti più alti, per essere i primi o, comunque, tra i primi, ed, invece, si sentono in una medietà che non soddisfa le loro ambizioni, respinti dalla compassione derisoria dei compagni.
Immagini di studenti letterari o reali continuano ad affollarsi in un labirinto sempre più intricato di corridoi e stanze, per cui, confusa dall’assenza di limiti, metto fine alle divagazioni.
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NOTA
La lettera e la risposta erano pubblicate nella rubrica per posta, “Il Venerdì” di Repubblica, 7 marzo 2008