Alcune sere fa ascoltavo delle interviste realizzate con alcuni abitanti di una periferia qualunque in una città qualsiasi ( credo che le stesse affermazioni si sarebbero potute registrare in qualsiasi altro luogo d’Italia). Dalle loro parole emergeva un’ accorata denuncia: il loro quartiere, le strade frequentate quotidianamente, il palazzo in cui abitavano non erano più gli stessi, si erano riempiti di volti estranei, gli immigrati. Le conclusioni erano sintetizzabili nella frase: “Non sono più a casa mia!” Si respirava, quasi, l’angoscia per quella perdita. Tutti, uomini e donne, spiegavano, poi, di sentirsi in pericolo, minacciati dagli stranieri, anche se convenivano di non aver subito danni di alcun genere dagli stessi, magari avevano notato solo comportamenti socialmente scorretti.
Mi è venuto in mente un episodio raccontato da Ernesto de Martino: un vecchio pastore, portato in auto, non potendo più scorgere il campanile del suo paese, aveva cominciata a manifestare un’angoscia sempre maggiore, avendo perduto il punto di riferimento “ del suo estremamente circoscritto spazio domestico”. Lo studioso conclude: “Certamente la presenza entra in rischio quando tocca il limite della sua patria esistenziale, quando perde ‹‹il campanile di Marcellinara››.” (1)
L’angoscia del vecchio pastore, il sentimento di “perdita della presenza” è, in qualche modo, la medesima angoscia delle persone intervistate, “di chi perde, o teme di perdere, i riferimenti a quei luoghi domestici dove sente di avere un senso.” (2) . Quella sembra essere messa a rischio è la propria identità in un contesto diventato irriconoscibile.
Come il pastore non ritrovava più il suo campanile, così quelle persone sentivano di aver smarrito il loro spazio esistenziale, costruito sulla consuetudine quotidiana di scambi, di incontri in una situazione di comunanza e familiarità.
La conseguenza era la paura: avvertivano quei volti stranieri come una minaccia che li circondava.
Ho ben chiaro che questa è solo una componente, ma non credo che sia secondaria, della paura che si manifesta sempre più diffusamente fra le persone,.
Non voglio soffermarmi sul male che produce chi quella paura fomenta, ma su chi pensa di intervenire positivamente su di essa e lo fa attraverso la razionalità delle argomentazioni, dei dati, delle statistiche, della necessità, altrettanto razionale, di adeguarsi a tempi profondamente mutati.
Un simile atteggiamento genera frustrazione e risentimento. Viene vissuto come espressione di chi contrappone la sua superiorità al tuo essere, in fondo, uno sciocco, affetto da paure immotivate e da una grettezza di orizzonti.
Allora, come intervenire?
Non ho nessuna intenzione di parlarvi della necessità/dovere dell’accoglienza, della condivisione, e di tutti altri lodevoli comportamenti che, ormai, vengono da tutti predicati e rivendicati. Mi fanno, spesso, l’impressione di una giaculatoria recitata senza impegno e senza fede.
Bisogna, invece, non dire, ma operare sull’ “estraniarsi del domestico, lo spaesarsi dell’appaesato”(3), rendendosi conto, non sarebbe male, che anche lo straniero vive la stessa condizione in forma più radicale e dolorosa.
Come è possibile, allora, costruire uno spazio esistenziale che riappaia familiare, pur essendo profondamente mutato?
Non ho risposte, però mi viene in mente quel processo naturale: il tâtonnement (4) di cui parla Freinet. Si tratta di una ricerca che procede per tentativi per trovare la soluzione di un problema reale.
In fondo, di fronte al fenomeno dell’immigrazione siamo come bambini senza coordinate e senza conoscenze pregresse. Ed è così che molti insegnanti operano nelle scuole, sempre di più luoghi di contatto tra diversi. Si tratterà forse di esperienze non eccezionali, ma che hanno il pregio della continuità nel tempo e della perseveranza. Su quelle esperienze, infatti, sia positive sia negative, si riflette per andare avanti, per trasformare un contatto, determinato dalle circostanze, nella conquista di una familiarità che può diventare, nel tempo, abitudine a condividere e cooperare.
Qualcuno obietterà che questo è un quadro della scuola che non corrisponde alla realtà. È vero la rappresentazione che emerge dai media è del tutto diversa, ma io ne sostengo la parzialità. Suggerisco, anzi, di andare nelle scuole, in particolare nelle elementari, dove i bambini, se un adulto si mette al loro fianco, hanno una disponibilità infinita a conoscere ed incontrare “il diverso”, e dove è possibile anche un coinvolgimento dei genitori più partecipi della vita della scuola.
Se ne potrebbero trarre spunti, indicazioni per creare nuovi luoghi di contatto e di incontro.
NOTE
1) E. De Martino, La fine del mondo. Contributi all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di C. Gallini, Torino, Einaudi, 2002, pp. 480- 481
2) G. Jervis, La conquista dell’identità, Milano, Feltrinelli, 1999, p. 35
3) E. De Martino, op. cit., p. 470
4) Per il “ Tâtonnement” vedi C. Freinet, Saggio di psicologia sensibile applicata all’educazione: la ricerca sperimentale, a cura di Roberto Eynard, Firenze, Le Monnier, 1972, pp. 70- 114