“Il presidente del Camerun aveva perso la moglie, improvvisamente. Era molto triste e il suo popolo con lui. Durante una celebrazione nazionale conobbe lei, così giovane e bella e fu un colpo di fulmine. Doveva averla, ma era già promessa a un altro. Non arretrò rispetto alle buone usanze e decise di chiederne la mano il più discretamente possibile – era pur sempre il presidente… Ora, immagina la scacchiera delle zone di distribuzione della corrente elettrica; contemporaneamente al viaggio della macchina del re verso la casa della ragazza in un lontano villaggio, un operatore della rete, in contatto telefonico con lui, oscurava la zona attraversata. Il giorno dopo non si fece che parlare dello strano black-out, uno spegnimento intermittente della luce nelle case e nelle strade, prima in un senso, poi esattamente nel senso contrario; fino a quando non ricostruirono in ordine di tempo, gli avvistamenti della macchina presidenziale da parte degli abitanti intanto accorsi fuori. E all’annuncio delle nozze tutto fu chiaro. ”
Quando Samuel apre la porta, è sembrato lo stessimo aspettando. Io non so dove imparino certi corpi ad occupare lo spazio come fasci di forze centripete, a persuadere della propria originarietà rimanendo innocenti. Vorrei ci si fermasse tutti, renderle per un istante i riflettori, a questa presenza di ebano elegante. Non sa quanto leggero sembri quello stanco zaino che scioglie dalle spalle e accomoda allo schienale. Forse pensa sia normale che persino quella giacca sdrucita scivoli setosa da sotto le mani, poi esita di fronte all’intonaco graffiato attorno al gancio, la ricompone al braccio e finalmente dice “maestra, aah, sono tanto felice, tanto tempo che non vedo la maestra”.
Mi chiede di spiegargli i diversi tempi del passato: provo a farmi accompagnare in un ambiente a più dimensioni. Esiste il passato del passato, ma anche il suo futuro e il suo presente, senza mai muoverci da lì. C’è il rimpianto, ma anche la preghiera e l’adesione al momento, poco importa che sia per concitazione o lentezza interiore che le resiste.
L’ho lasciato raccontare e la voce nasale e la risata sono stati l’altro corpo nell’ altro spazio, quello del suono:“Immagina un gioco, il gioco della corrente ah ah, la corrente dell’amore uuh”. Una nuvola gravida ingrigisce la luce, forse passa il presidente, Fareed si allunga di scatto alla finestra e scoppiamo tutti a ridere.
Ariful lo fa chinando la testa fra i gomiti sul tavolo, quasi rassegnandosi alla propria stessa commozione. “Te digo una cosa, lo sai perché tanti stranieri bogliono benire in Europa? Certo per i soldi, ma quando anche possiamo bibere nel nostro paese noi inbidiamo che boi potete scegliere l’amore, è l’amore capisci, quello grande che ti scegli tu, questa incredibile libertà di scelta! Il problema è la media, tutto sembra un paradiso nella media!”
La corrente lascia straripare il desiderio, ma non gli offrirà l’apertura di un pelago. Ancora (con)tengono, gli argini del passato.
“E’ vero”. Samuel gli porta la mano sulla spalla. E’ serissimo. “La mia famiglia, già lo sanno, due settimane fa mio padre mi ha detto che hanno trovato due mogli per me, io devo solo decidere, e due settimane prima ha chiamato già mia madre, e in tutto sono quattro. Ma loro lo sanno, io l’ho sempre detto: Samuel è buono, vuoi del buono? vai da Samuel. Ma se c’è una cosa per cui mi potrei mi suicidare, è se non posso scegliere chi amare!”
La corrente è la pulsione ad avanzare. Mi si dischiude davanti una gioia elementare, che attiva il respiro e promette un contatto, una sintonia. Con ciò che tutt’intorno gira, a noi s’avvolge e si fa ”ambi-ente”. Qui si tratta di riconoscere quanto rimpiangiamo, per cosa preghiamo, se aderiamo al nostro agire nel mondo, poco importa che sia per concitazione o lentezza interiore che le resiste. Altrimenti il mondo, a noi “amb-endo”, è una minaccia.
Tre anni fa, la sera del 23 dicembre, città brillante e fremente di caldi convivi d’attesa, Ariful rientrava a casa e si sarebbe addormentato ancora una volta davanti alla tv, se non l’avesse chiamato il vicino da giù, sì dal marciapiede. Scendi subito corri, è successo un fatto, corri, devi venire tu. Allora, d’improvviso, altre luci possono illuminare la strada e altre voci animare strane attese. Mamun era disteso supino con le braccia lungo i fianchi e i palmi aperti ad accogliere la pace. Lo spigolo di un muretto che infastidiva la schiena era un incidente d’icasticità nella caduta di un angelo. Un angelo che infedeli divise scrutavano invidiose. Andate via, largo, fatelo respirare, fatelo volare.
Invece furono ore al chiuso di un aereo, il suo ultimo volo, sopra paesaggi impietosi, crateri di abbandoni aperti dai lamenti delle guerre. Ci pensasti anche tu, mentre ti scorrevano ore di vertigine dello spazio e del tempo.
Quanti nomi merita l’Inizio, Ariful? Il tuo viaggio adolescente dal Bangladesh all’Europa, a questa perigliosa geografia di confini che attraversasti di notte, a piedi; i soldi facili, la vita vogliosa; il ricongiungimento tanto agognato con il fratellino più caro, e la sua Italia, che non era la tua e faceva sognare, con un buco nella pelle. Quanti nomi ti singhiozzano la Fine… La miccia nelle sue vene, la disperazione nelle tue, la restituzione del corpo a chi lo generò e non te lo avrebbe voluto dare, la destituita reggenza della tua intimità.
Due anni fa, in un giorno di gennaio, Ariful firmava le carte dell’ appartenenza. Alla tradizione.
Lo avrebbe fatto comunque, prima o poi, ma sarebbe stato Amore. Non lì, allora, in pieno lutto, e senza averla mai vista. “La nesessita di mio core, mio padre no interessa, perché la mia bita è la colpa, per mio fratello, no ha senso che bibo…”
Ora tua moglie sta per venire da te, tre anni dopo. E’ un’altra vittima, Ariful, non avercela con lei, è un altro flebile essere con cui dividerai quella stessa casa, in quella stessa strada.
Che dolce il sorriso che mi fai! Le lacrime non aspettavano altro, ora si lanciano incoscienti fino al mento: “Ti porto sua foto, però guardi solo tu, ti prego non la giri, non boglio vederlo, sennò sto male una settemana”
“Non me la portare, non è necessario”
“No, boglio che lo bedi, era amore mio, mio fratello freferito, era tutto per me, tu capisci”.
La corrente dicevamo, quella che trascina in una piena di promesse e quella che innerva di sé il desiderio, quella che polverizza il conosciuto e nelle sevizie del nuovo rinomina ogni inganno.
“Io dicevo io ora biaggiato tanto, io occidentale dentro, solo anche non posso diventare bianco fuori, però, io dicevo, io aperto cultura capisci? E invece zac! Diciotto anni in Europa non hanno bastato, hanno scelto loro.”
Luiza sorride in quel suo modo sempre un po’ incerto, potrebbe essere una resa inerme al mondo della vita almeno quanto un risveglio dal torpore del racconto che si fa. Luiza ci credi davvero?
A quale nenia interiore s’accordano le ore? La mattina al lavoro, il resto del tempo con lui: il telefono sempre in viva voce, mai fuori sola, neanche per la spesa. La notte sono urla, giustificazioni, lividi e livori. Tocca anche a me mantenere la sua fiducia: questa classe è l’unico momento d’aria che ti concede.
Ti hanno tradita, sappi, la spugna e l’acetone: quando ti trovai a sfregare via le macchie dalla lavagna, ripetei a me stessa che solo un tipo di donna si sarebbe portata da casa gli arnesi caricandosi di un danno non suo. Ora mi racconti che hai lasciato una figlia in Ecuador, a tua madre, appena dopo il parto, sei anni fa. Donna e madre irregolare, ti dai a un mostro solo perché “cittadino”, solo per riuscire a strappare tua figlia a sua nonna, che tu stessa facesti due volte madre e che ora non te la rende. In questa soffocante attribuzione delle parti, vince chi costringe l’altro alla riconoscenza, al debito di dedizione. Non chiamarlo amore, Luiza. E’ la tua pira bianca, al cui altare immoli insondata la nostalgia di salvezza.
Io sono stata tanto amata, mal amata come tanti. E’ per dire bene l’amore mal dato che avanzo cercando il ritorno: occorre perdonarsi per donarsi. Aver rimesso a se stessi, per potersi dare. Essere salvi dal riscatto dei presunti debiti d’amore, per amare.
In ospedale dopo una paralisi, una scarica verso il basso e mezzo corpo che non risponde più.
Gli impulsi nervosi pizzicano il capo e scollano la pelle, lucciole di resistenza prima che le agguanti l’ultima profondità.
Quale sia la causa i medici non lo scopriranno, consultano le lastre, loro, mentre io ti strappo via cinque minuti monosillabici ad ogni lezione.
Il corpo ha le sue parole, che son sempre quelle ovunque tu lo conduca, sono quelle e basta.
Malattia è mal à dir.
Ora andiamo. Questo non è un gioco, io non sono di pietra e anche il cielo non vede l’ora di scoppiare a piovere.