La passione per la geografia maturata alle elementari, poi soffocata negli anni successivi. La riscoperta di “un significato credibile” della disciplina. Una passione ritrovata che spinge a proporla come progetto di tirocinio.
L’incontro e lo scontro con la geografia
La geografia che mi è stata insegnata alle elementari era ben altro, per questo ho dovuto imparare riflettere molto per poterla riconoscere in mezzo alle sue pallide copie, spacciatemi per l’originale, nel corso degli anni successivi. Per fare solo qualche esempio di questa geografia “autentica”, posso ricordare che la mia maestra ci portava in piazza nei giorni di mercato per parlare con i “vecchi” che ci raccontavano cosa avesse rappresentato quell’evento negli anni della loro infanzia e come fosse cambiato. Ci faceva, poi, consultare i libri di storia locale in cui si parlava di quantità e occupazione della popolazione nei secoli passati, e, all’improvviso, per noi bambini i numeri, gli stessi numeri che ci sarebbero sembrati noiosi e incomprensibili qualche anno dopo, perché privi di significato e di contesto, acquistavano un senso. Con sorpresa ed emozione scoprivamo quanti “braccianti”, quanti “mezzadri” e quanti “possidenti” c’erano fra i nostri avi. Veniva spontaneo chiedersi perché le cose fossero cambiate, perché i mestieri dei nostri genitori fossero infinitamente più vari e diversi rispetto ad allora, e quale aspetto avesse il nostro paese in quei tempi lontani, ma, in realtà, neanche troppo lontani se esistevano “già” persone che portavano il nostro cognome e abitavano la nostra terra.
Ed eccola, allora, la geografia: l’uomo che fa l’ambiente e l’ambiente che fa l’uomo.
Se mi rivedo nel passaggio dalle elementari alle medie, mi sento come il bambino descritto da Pennac in Come un romanzo: i libri che il genitore gli legge da piccolo per lui sono pura magia, favola, emozione; arriva poi la scuola, un “certo modo” di fare scuola, che rompe l’incanto. Così è stato per me, in tutte le materie. Non ricordo assolutamente nulla della geografia delle medie, nemmeno il colore della copertina del libro di testo. Ricordo, però, che strappavo gli angoli delle pagine per scrivere bigliettini ai miei compagni, e pensare che ora tratto i libri come fossero neonati.
La mia insegnante del ginnasio esordì dichiarando il suo odio per la geografia, e la didattica del “tirare via” che ne sarebbe derivata; ricordo solo le consegne per il compito a casa da una lezione all’altra, nello stile: “Studiate la Malesia per la prossima volta, che interrogo”.
Primo giorno di tirocinio
L’edificio in cui è situata la scuola media dove svolgerò il tirocinio è lo stesso in cui ha sede “mio” liceo, la scuola che mi ha visto maturare dalla quasi totale indolenza alla profonda passione per ciò che studiavo. I ricordi legati al mio status di studentessa sono tanti, solidi e vivi; per quanto riguarda invece “l’essere prof”, mi è sembrato di avere come bagaglio soltanto modelli, esperienze altrui, e nulla dentro di me che potesse aiutarmi.
Prima di entrare nell’aula, avrei voluto decidere con quali occhi apprestarmi ad osservare la classe che mi sarei trovata davanti: con gli occhi di me dodicenne quasi del tutto disinteressata alla scuola, di me diciottenne da poco travolta dalla passione per la vita e per i libri, o di me ventisettenne forgiata da alcuni fondamentali incontri all’interno della Ssis?
Ho deciso di calmarmi, entrare in classe e semplicemente osservare, facendomi guidare dalle sensazioni.
Mi sono resa conto ben presto che avrei avuto bisogno di tutti e tre i punti di vista fra cui scegliere, e che, probabilmente, tante volte neppure sarebbero bastati.
Vedo un ragazzino che si distrae visibilmente mentre la professoressa ha appena iniziato a spiegare; la cosa istintivamente mi disturba, poi rivedo me e i miei compagni in seconda media passare intere lezioni a grattare le gomme su pezzi di carta vetrata, per produrre polverine che poi conservavamo in boccette di vetro. Non eravamo né stupidi né vuoti, come qualche insegnante ci aveva sostanzialmente definito, ma ci annoiavamo, e il “senso” del grattare gomme su carta vetrata ci sembrava più evidente di quello delle lezioni che stavamo seguendo.
Vedo tanto altro: la tensione che domina il corpo dei ragazzi alla consegna dei compiti in classe, vedo gioia, autentica disperazione, competizione, culto del voto. Sono dinamiche innate e naturali? E in che misura un certo modo di fare scuola le incentiva?
Questo universo così profondo, stratificato, infinito, da un lato mi ha spaventato un po’, mi ha fatto nutrire dubbi sul mio essere all’altezza del ruolo che mi preparo a ricoprire; dall’altro, mi ha confermato nella convinzione che questo mestiere così difficile è, tuttavia, il più stimolante e creativo che esista.
Lezione di geografia
Un coro di espressioni di disappunto ha accolto in classe la notizia che il mio progetto di tirocinio sarebbe stato svolto in geografia; recuperando di nuovo, istintivamente, i miei ricordi di scuola, penso che al posto dei ragazzi avrei reagito allo stesso modo. Durante l’osservazione di classe, ho notato che l’approccio dei ragazzi a questa materia è piuttosto freddo e quasi imbarazzato. L’entusiasmo, la ricchezza di interventi, gli spunti interessanti, l’accavallarsi delle mani alzate che accompagnano le lezioni di italiano lasciano spesso il posto, durante le ore di geografia, a silenzio, distrazione, palpabile noia.
Ripensando a quando e perché la geografia ha iniziato per me a cambiare volto e ad assumere un “significato credibile”, mi sono accorta che ciò è avvenuto piuttosto tardi, soltanto alla SSIS. Questo “significato credibile” mi si è rivelato nel momento in cui l’oggetto di studio della materia mi è apparso come una sorta di appassionante caccia al tesoro: attraverso l’interpretazione della morfologia di un territorio, della sua posizione, dimensione, forma, figura, della sua umanizzazione, possiamo arrivare, in un dialogo con il passato, a svelare i molteplici “perché” della contemporaneità in cui viviamo.
Per costruire il progetto intorno ad una geografia “diversa”, ho quindi pensato di farmi guidare proprio da questa mia recente e appassionante scoperta.
Se un insegnante non è il primo a credere con passione e coerenza in quello che fa, la prima persona che deve mettere in discussione quando si trova davanti una schiera di ragazzi che grattano gomme sulla carta vetrata, forse, è se stesso.