Se prendiamo in considerazione l’attuale realtà scolastica sotto 3 aspetti
- quello sovrastrutturale dei pronunciamenti, degli orientamenti, degli obiettivi dichiarati e proclamati ;
- quello strutturale delle risorse economiche e organizzative, in termini materiali ma anche professionali e progettuali;
- quello quantitativo e qualitativo delle caratteristiche dei fruitori e delle loro famiglie.
Credo possiamo essere d’accordo che su queste 3 dimensioni (come su altre), invece di lavorare in una prospettiva di convergenza, di raccordo e di coerenza, spesso si è intervenuti obbedendo ad interessi e pressioni estranee ad una visione educativa e formativa e ad una reale analisi delle condizioni e dei bisogni.
Con la conseguenza che ci troviamo oggi in una situazione estremamente eterogenea per quanto riguarda qualità e quantità degli interventi (a macchia di leopardo), piena di contraddizioni, talvolta paradossale, talvolta insostenibile, comunque nel suo complesso certamente non all’altezza dei problemi; continuamente si chiede agli operatori della scuola di improvvisare e di tappare buchi e risolvere emergenze, contribuendo ad un’immagine (già piuttosto ammaccata) di scarsa affidabilità ed efficacia della scuola come servizio educativo oltre che culturale.
Abbiamo quindi da un lato un livello normativo e discorsivo fino ad oggi in buona parte condivisibile che promette di promuovere e di garantire inclusione, diritto allo studio, pari opportunità, individualizzazione dei percorsi educativi e così via (vedi per es. le linee guida del 2006 sull’inserimento degli alunni stranieri, tuttora valide).
Contemporaneamente, abbiamo da tempo una forte riduzione di risorse organiche e strutturali, e quindi continuative e certe (sempre meno ore di insegnanti di ruolo sugli stranieri), che ha fatto sì che su tutto il discorso degli stranieri si è innescato una dinamica di delega ad operatori esterni e di esternalizzazione gestionale degli interventi. A questo impoverimento si aggiunge la stretta sulle risorse degli enti territoriali.
Parallelamente abbiamo, tuttora, un forte aumento di iscrizioni di alunni stranieri (soprattutto nelle scuole superiori) con una sempre più spiccata diversificazione, non solo in termini di provenienza ma, soprattutto, per quanto riguarda i processi di acculturazione e identificazione dei minori iscritti, quindi con bisogni di sempre maggiore complessità che si aggiunge a quella, ugualmente crescente, degli studenti italiani. Si aggiunge una distribuzione delle presenze, in molte realtà, squilibrata e per nulla governata.
Siamo, quindi, in una situazione di sostanziale inapplicabilità della normativa vigente, o di un’applicazione inevitabilmente parziale, spesso casuale e/o arbitraria. Che non scusa le scuole che non fanno nemmeno quello che potrebbero fare e rende ammirevoli le scuole che, in queste condizioni riescono ad ottenere discreti risultati. E’ un quadro di estrema fragilità che, oltre a mettere a dura prova l’impegno degli insegnanti volenterosi e disponibili, pone grossi problemi di efficacia e di credibilità e costituisce, purtroppo, un terreno fertile a proposte demagogiche di “semplificazione“ e di “sistematizzazione” come quello delle classi ponte, di cui a questo punto non viene colto tanto l’aspetto problematico (separatezza, scarsi risultati linguistici, messaggio culturale negativo), ma quello apparentemente risolutore (standard minimi in ingresso, riduzione della complessità, minore carico di lavoro).
Una difficoltà, strettamente connessa all’intero quadro, è l’esiguità dimensionale della maggior parte degli interventi. Mentre fino a pochi anni fa in una scuola potevano esserci una o anche due cattedre sul sostegno italiano L2 per un numero molto minore di studenti stranieri, oggi si susseguono “interventini” spesso di poche decine di ore che comportano un forte investimento di coordinamento, organizzazione ed amministrazione per produrre risultati inevitabilmente modesti. E non è solo una questione quantitativa, importantissima, ma anche una questione di precarietà istituzionale di questi interventi, sia per le figure che li realizzano operativamente (esperti esterni) sia per il carattere “effimero” con cui appaiono e spariscono (sono legati a progetti di durata al massimo annuale). Tali interventi, quindi, non possono aspirare alla stessa “dignità” istituzionale del normale lavoro in classe. Dividere i bisogni educativi e formativi degli alunni in una parte ordinaria da coprire con le prassi istituzionali consolidate (la didattica curricolare) e in una parte “eccedente” rispetto alla “normalità” e, perciò, da delegare a strumenti di altra natura (appunto i progetti), significa collocare questi bisogni come “diversi”, al di fuori del sistema vero e proprio, in posizione marginale, e creare una “zona grigia” di funzioni e compiti ritenuti “divergenti” rispetto alle prassi correnti e collaudate.
Eppure …. Anche se i migliori interventi non possono certo superare questi problemi di fondo, in molte realtà dirigenti, docenti, ATA e esperti esterni insieme hanno dimostrato e dimostrano che anche in una situazione complessiva molto difficile è possibile favorire un clima interculturale, realizzare dispositivi di sostegno che incidono positivamente sulla riuscita scolastica degli alunni stranieri, migliorare la comunicazione scuola – famiglia, coinvolgere docenti e Consigli di classe in percorsi di aggiornamento e sperimentazione per rivedere pratiche didattiche e modalità valutative.
Si hanno azioni efficaci dove si riescono a creare sinergie e integrazione tra diversi progetti e interventi e tra questi e la didattica corrente, dove si riesce a fare interagire diverse identità e competenze professionali, dove si riesce a dare continuità agli interventi e alle persone che li portano avanti e dove, infine, gli sforzi in questa direzione vengono riconosciuti e valorizzati istituzionalmente. Non è certo la soluzione ma è quello che possiamo e dobbiamo fare per contrastare la deriva in atto. Anche per dare qualità e dignità al nostro operare nel luogo dove passiamo tanta parte della nostra vita.