Domenica 21 dic. 2008
La sala è modestamente addobbata: qualche festone, due ghirlande di pino, rametti innevati e qua e là punte di rosso e di oro. In un angolo le scatole dei regali che i Babbo Natale distribuiranno ai bambini e agli adulti. Gli ospiti della residenza sono per metà musulmani e vorrei qui coloro che dividono gli uomini in compartimenti stagni di abitudini e convinzioni chiamandoli “culture”. Vorrei anche non avvertire un certo disagio, mentre scopro il potere vischioso e omologante di quella cui appartengo.
La musica espande immagini e colori che si è ingenui a non sospettare in un luogo com questo. Il setar e il tombak accedono a melodie che esplorano la pelle alla ricerca del nervo più sensibile, perché s’insinuino purificanti i semi di cardamomo. La lingua persiana vi sfiora polveri di zafferano che l’olio di sesamo diffonde e si tingano allora le corde vitali come i fili di lana dei tappeti antichi, le vesti dei re Assiri, i veli delle spose di Roma.
Hamid è in gruppo di amici poco distante da me, incanala lo sguardo nel mio pervicacemente. Sembra conosca in anticipo la direzione che prenderà mentre parlo con Ruth della sua nuova pelliccia da sera o ascolto la teoria di Dandy sul perché i rapper americani vestano sempre indumenti di tre, quattro taglie più grandi. Si scontrano in me gli opposti bagliori dei mondi.
Intanto, ovunque mi volti, lui è già lì a sorridermi incontro, timidamente.
L’etnia hazara, originariamente concentrata nell’Afghanistan centrale, è protagonista da secoli di una drammatica diaspora: sono la minoranza sciita in un paese a maggioranza sunnita, perseguitata dai taleban, sunniti e di etnia pashtun, in nome appunto della purezza razziale. Gli Hazara sarebbero discendenti dell’armata di Gengis Khan, eredità genetica dell’invasore del XII secolo, ma più probabilmente dei Koshani, i primi antichi abitanti dell’Afghanistan, i costruttori dei Buddha di Bamyian risalenti a circa 1800 anni fa e che i taleban si curarono di radere al suolo nel marzo 2001, mentre noi ci credevamo ancora in pace. Quelle statue erano espressione intollerabile di una setta idolatra, ma rappresentavano l’umano e non il divino e certo l’umano aveva i loro tratti, hazara.
Questi rifugiati sono “occhi da cinesi” e falcata coraggiosa. Immagino a crescerli terrazze di creta per speranze screpolate e torrenti cristallini che improvvisamente nutrono le valli. Anfore immorali, gli altopiani nodosi preservano millenari pozzi di gas naturale e scaglie preziose, e steppe incredule si affacciano su manti di papaveri. Terre dure, mine inesplose di trent’anni di guerra ne reggono le membra, con i ritmi attuali ne occorrerebbero quattromila a disossarle.
Mi decido ad avvicinarlo.
“Allora Hamid?” Come va con la borsa lavoro?”
Si alza in piedi e mentre mi offre la sedia..“Bene! Bene!… ma devo imparare tante cose nuove.. “
Piccolo buddha in fuga, cos’hai stasera?! Viso smunto, graffiato da rughe che non dovresti, correvano sul vento i grani della terra mentre il sole osservava se insistevi nella via. Corpo esile, ansia di equilibrio incassata fra le costole. Eppure gli occhi non soccombono, due fessure curiose e brillanti ti addolciscono i tratti.
“Maura…ti voglio dire… lo sai che sono arrivato a Italia tra un anno proprio, proprio oggi?!”
Eccoci! penso. “Un anno fa? Davvero?”
“Ah sì, un anno fa..non parlo mai perfetto”
“Però hai capito da solo dove era l’errore, non ci riescono tutti!” Hamid è troppo esigente con se stesso, l’ho recuperato da poco dall’ossessione per le preposizioni articolate, ora mi preoccupo di gratificare la sua ansia d’apprendere senza mortificarne il perfezionismo.
“Quindi conosci già ******* sotto le feste?”
“No, sono sceso a *******, ma non parlavo niente, che freddo dio mio!!.” E qui sorride, non che il resto non sia più facile da accantonare !
“Quanti eravate nel camion? In quello di Jan erano in diciotto.”
Parviz mi strattona, vuole che gli scatti una foto mentre abbraccia Tariq; che si veda bene la cintura, un medaglione di swarowski di plastica su cui una $ dei dollari americani può essere fatta roteare a piacimento. Una finezza per pochi intenditori.
“No, io ero sotto, da solo, c’è spazio solo per uno..”
“Oh santo cielo, ma è pericolosissimo!”
“.. e avevo una maglietta così..(e qui mima un taglio sul braccio, vicino all’ascella)”
“Eh… ci credo che avevi freddo!”
Alla mia sorpresa s’è rinserrato nelle spalle, un sorriso lo ringiovanisce imbarazzando il corpo rigido, è il discolo che confessa la bravata. Ma dura un istante, il racconto gli incalza in gola, si vede. Riprende.
“Ero già scappato dalla polizia turca…mi sono buttato dalla finestra…. forse uno o due piani..”
“Come non lo ricordi!? Ma Hamid non avevi paura ?” Io lo so che non l’aveva, ma capisco di dover fare da eco di ritorno. A volte serve un prisma di rifrazione per discernere le emozioni, quando la coscienza si risveglia ed è un flusso unico e compatto.
“…Non lo so, non capivo niente, non mi importava..non ricordo dove ho sbattuto, perché poi zoppicavo, quindi avevo sbattuo in qualche modo… io ero scappato dall’Afghanistan per essere libero, non potevo rischiare che mi mandavano indietro!. Anche la polizia greca mi ha picchiato, ma sono riuscito a infilarmi di nuovo sotto un altro camion. Non ho dormito per trenta ore, non potevo addormentarmi là sotto, sennò cadevo.”
Come s’acquietano le voci tutt’intorno quando temiamo che s’allenti il legame, che svapori la magia; nonostante ci avvolga la confusione festosa, lo spazio tra noi rimane duro e pieno come quello tra i magneti.
Hamid ha paura a posteriori “non so come ho fatto”, paura di perdere tutto “non posso dimenticare”, paura che nascano fantasmi “aiutami tu, voglio ricordare tutto”.
Grazie Hamid! Che onore! Potrei spaventarlo abbracciandolo come vorrei, allora diminuisco in un “Quando vuoi, con piacere, sono qui!”
Parviz non trova pace, ora inforca una videocamera e planando sulle nostre schiene fa per registrare il dialogo. “Eh! Che cosa parlate? C’è la festa non vedete?”. Hamid reagisce brandendo in darì non so che avviso contro di lui. Mi sento contesa. E anche un po’ in colpa, sto trascurando gli altri.
Siamo padroni solo del ricordo, ma abbiamo vissuto solo ciò che raccontiamo.
Il racconto è prerogativa dei sani, quando le gambe riacquistano un peso e dal crinale dell’affanno si voltano iindietro.
Il dolore come una malattia spalanca i pori e ottunde la ragione, infervora i gemiti interiori, i bisogni primordiali, e li conduce a scalare pareti di incoscienza, allora il corpo ciondola nel vuoto e affila le unghie la presa disperata – a chi fermamene crede i prodigi non fanno paura.
Se Allama Iqbal fosse vivo, riconoscerebbe l’avverarsi della profezia. Il filosofo e poeta visionario, nella cui celebrazione si uniscono le voci di Afghanistan, Iran, Pakistan e regioni dell’India nord occidentale, metteva in guardia la società moderna dal materialismo e dall’ateismo già sul finire del secolo XIX. La colpa dell’Europa sarebbe stata la separazione tra Stato e Chiesa, quindi l’annichilimento del senso morale. Il ghazal risale al 1907:
…
Il leone che era emerso dal deserto e
Aveva fermato l’Impero Romano
Come mi dicono gli angeli
Sta per risvegliarsi dal torpore.
[…]
La carovana di fragili formiche prenderà il petalo
Di rosa come nave
E contro l’ impeto delle onde, attraverserà
Il fiume.
….
Sì, carovane muovono ogni giorno dal deserto, ma i cittadini dell’Impero soccomberanno a ben altri barbarie. La presunzione di essere liberi, la messa a tacere del corpo, la scientifica eliminazione del dolore, la perdita dei rituali.
Benvenuto Hamid, nel mondo dei liberi e dei sani.
Martedì 30 dic. 2008
Guardo verso la finestra, l’inferriata imprigiona la luna, io invece le darei volentieri riparo, che si salvi almeno lei. Siamo al penultimo giorno dell’anno e al quarto dell’operazione Piombo Fuso. Domani sera i popoli abbienti del mondo faranno mostra di sé nell’ennesimo oltraggio a chi vive in guerra. Le radio mandano già le musiche della ‘festa a tutti i costi’, penso alle squarciagole, alle smanie e ai salti danzerini dei tanti felici omuncoli dal brindisi perenne. Mi vergogno. Si può festeggiare senza offendere, ma non è quello a cui siamo stati educati. Quindi non avremo remore ad attizzare il cielo, a raschiare il buio e a scandirne il crollo con il rullo di tamburi delle bombe colorate. Mi vergogno davvero. Per festeggiare senza offendere, basterebbe rispettare gli spazi: nel cielo no, niente impudiche scintille fino a quando dello stesso cielo farà uso la morte.