Questo lungo racconto di scuola, che lo scrittore triestino scrisse negli anni Venti, ha avuto una sua pur limitata fortuna, al punto che negli anni Settanta se ne trasse anche un film trasmesso alla televisione. Ma oggi, pochi leggono ancora la narrativa di Stuparich. Eppure queste pagine tratteggiano con finezza il gioco sommesso e leggero di sguardi incrociati e turbamenti inespressi – e si resta quasi inteneriti davanti alla cieca benevolenza degli adulti, insegnanti…
Giani Stuparich, Un anno di scuola, Trieste, Il Ramo d’Oro, 2003, pp. 49-52 (1929).
Erano tramontati per Antero i bei giorni delle allegre passeggiate in cui tutto era chiaro, tutto faceva serenamente godere; i bei giorni quando andava a scuola col cuore aperto a ricevere e a scambiare il primo sguardo di saluto, in cui il sole nascente sgombro di nubi prometteva tutta una luminosa giornata; quando vederla bastava, quando camminarle a fianco e ridere e spensieratamente giocare era la colma felicità, che ogni tanto traboccava in innocenti stravaganze e in sbrigliate scorrerie. La sera allora era un piacere ricordar la giornata passata e non restava se non il desiderio gioioso di veder rinascere il sole.
Ora invece la mattina a scuola era una pena, quelle ore erano una tortura; egli la cercava con un senso d’ambascia in mezzo a tutti quegli ostacoli e quando i loro sguardi s’incontravano, restava turbato per molto tempo. Edda poteva tuttavia star come sempre fra i compagni, partecipare, almeno apparentemente, alle loro futilità; Antero non la capiva, l’accusava dentro di sé di leggerezza, e ciò aumentava la sua pena. Egli non viveva quelle ore che a sprazzi; riusciva a far dentro di sé un po’ di calma, solo quando con grande sforzo si dimenticava nella lezione; allora s’accaniva nell’afferrar presto, nel precorrere gli altri, nel recuperare l perduto; egli era di nuovo il più brillante scolaro della classe, le sue traduzioni dal greco, dal latino erano le più precise e le più scorrevoli. “L’ancora di salvezza della classe” soleva chiamarlo il professore di latino; ma on sapeva che quell’ancora teneva ben poco il fondo, che bastava alle volte semplicemente che un “signorina Marty” risuonasse nell’aula, perché Antero non capisse più niente. E anche quando capiva, solo la parte più fredda, più superficiale del suo cervello era presente. Ma la fortuna continuava a proteggerlo.
E seguitò a proteggerlo anche quando il pericolo d’esser colto impreparato e distratto diventò gravissimo e continuo Fu quando per uno smistamento di classi, l’ottava dovette adattarsi in un’aula più piccola a pianterreno. La Marty nel cambiamento venne a sedere proprio dietro a lui.
Egli sentiva ora sul collo il respiro di lei; come ella si chinava, i suoi capelli gli sfioravano i capelli; La mano o il braccio di lei s’appoggiavano alle volte contro la sua schiena. E poi erano piccole parole sussurrate all’orecchio, alle quali egli rispondeva con bigliettini. E lei replicava con altri bigliettini, che gli metteva tra i capelli, che gl’infilava dietro l’orecchio, o nel colletto della giacca, o addirittura con terribile audacia gli buttava oltre sul quaderno o sul libro aperto. Meravigliosa corrispondenza fatta di nulla e densa di significati di emozioni e di echi. E tutto questo bisognava nascondere, far in modo che nessuno se ne accorgesse, che Teuer così vicino non s’insospettisse di nulla. In questo forzo s’esauriva tutta l’attenzione di Antero. Era invidiabile lei che poteva attendere a una cosa e all’altra, pronta a rispondere quando fosse interrogata. Ad Antero invece la lezione sfumava davanti agli occhi come una nebbia. Guai se in certi momenti l’avessero esaminato, egli avrebbe potuto rispondere greco per latino, storia per filosofia. Fu più volte sull’orlo d’un tale precipizio. Colto improvvisamente da un “Sentiamo Antero”, egli si alzava che non sapeva in che mondo si trovasse. M poi, fosse abitudine, fosse coraggio da disperato – soprattutto era fortuna – egli s’orizzontava di colpo come un colombo viaggiatore, e via dritto. Dopo aver risposto, non sapeva né come né che cosa avesse risposto. Tuttavia la sua aria trasognata non poteva sfuggire, in ispecie a certi insegnanti; ma ne davan la colpa al troppo lavoro. “Non s’esaurisca, Antero”, gli raccomandavano paternamente.