L’esperienza d’insegnamento in una classe e gli sviluppi di un percorso con risvolti anche imprevedibili, ma che mostrano l’efficacia di un lavoro partecipato.
Venerdì si è svolta la mia ultima lezione di tirocinio.
Avendo già consegnato le verifiche corrette, si trattava di una di quelle lezioni che i miei studenti di prima media chiamano “gratis”, cioè per le quali non sono previste valutazioni o verifiche perché servono a me come bilancio di un’attività e sono propedeutiche ad un’altra.
Avevo proposto un mini progetto, per valutare se avevano fatto loro un metodo di lavoro su diritti e doveri, ma anche per portarli a riflettere su modalità e importanza dell’argomentare.
Ho cominciato con una domanda:
– Chi vincerà il campionato quest’anno? –
Un ragazzo ha risposto: – L’Inter! –
Ho subito scritto alla lavagna:
-L’Inter vincerà il campionato?-
Ho diviso la lavagna in due: la parte del sì e quella del no, secondo il modello spesso proposto dai libri per introdurre il testo argomentativo.
Una ragazza, partigiana del sì, si è immediatamente pronunciata; richiesta di motivare la sua opinione ha risposto: -Perché è la squadra più forte.-
Per farla breve la classe stessa ha intuito la necessità di dover argomentare meglio e ha tirato in ballo preparazione atletica, qualità dei giocatori, motivazione, ma anche aspetti psicologici ed economici…
Ho fatto notare che i toni della discussione si erano fatti progressivamente più civili, man mano che il confronto si addentrava su motivazioni argomentate e che chi non conosceva il gioco del calcio era stato costretto a non partecipare. Ho chiesto di esprimere delle considerazioni in proposito.
Hanno notato che le opinioni si costruiscono, mattone su mattone, sovrapponendo esperienza, partecipazione, documentazione.
Una ragazza ha avuto l’intuizione: -Chi non sa è impotente, è costretto a subire e stare zitto.
Ho domandato se erano tutti d’accordo e se ricordavano qualche passo di Calamandrei in proposito.
Una ragazza ha citato un passo praticamente a memoria.
Ne è uscito un meraviglioso collegamento tra informazione, documentazione, partecipazione e libertà, devo dire con diversi interventi.
Poi, ho letto loro un articolo della dichiarazione universale dei diritti:
L’istruzione … deve promuovere la comprensione, la tolleranza, l’amicizia fra tutte le Nazioni, i gruppi razziali e religiosi…
Ho scritto la lavagna lo stesso articolo in forma interrogativa e abbiamo affrontato la questione in modo analogo a quella precedente.
La tutor mi aveva incoraggiata a proporre un argomento forte, che sapeva in grado di scatenare una certa animosità. Mi aveva raccontato che, sin dalla prima, la presenza di tanti ragazzi stranieri in classe aveva generato discussioni e occasioni di confronto e che molti ragazzi erano maturati molto, anche se continuavano resistenze e commenti negativi da parte di alcune famiglie.
Gli interventi sono stati di rara profondità e alcuni di essi mi hanno dato motivo di riflettere a lungo anche dopo la conclusione della lezione.
Un ragazzo ha osservato che a scuola ci si trova indiscriminatamente a fianco di compagni aventi cultura, lingua e religione differenti, si è costretti a collaborare con loro, a conoscerli meglio e, una volta che ci si conosce. è molto difficile scivolare in quelle manifestazioni di odio cieco che caratterizzano gruppi violenti come naziskin.
Mentre li ascoltavo raccogliere con fatica, ma in modo convincente le loro idee non ho potuto impedirmi di pensare alle classi ponte e a quali conseguenze potrebbero portare.
Questo argomento mi ha costretto anche a riflessioni di tipo metodologico: se i ragazzi si limitano ad essere spettatori di una lezione frontale, le occasioni per interagire in modo profondo vengono sprecate e, pur condividendo gli stessi spazi d’apprendimento, finiscono per restare estranei.
Un altro ragazzo ha osservato, ma a lui si sono aggregati in molti aggiungendo particolari ed operando aggiustamenti, che proprio la religione dovrebbe avere la funzione di incoraggiare un confronto profondo, e non essere un’ennesima occasione per dividere e discriminare.
A questo punto in molti hanno osservato che l’insegnante di religione cerca di fare proprio questo, tanto che alcuni ragazzi anche mussulmani hanno finito per non chiedere l’esonero.
Un ragazzo è intervenuto obiettando che, proprio nel contesto scolastico, spesso si verificano episodi di bullismo e intolleranza.
Ad un quarto d’ora dal suono della campanella, si è verificato un imprevisto che ci ha costretto a cambiare programma e ci ha impedito di portare a termine il lavoro di introduzione al testo argomentativo.
Un gruppo di ragazzi, visibilmente scossi e terrorizzati, ha raccontato esperienze di bullismo, avvenute in ambito extrascolastico, nel gruppo scout, delicate e personali, delle quali erano stati spettatori. Abbiamo quindi necessariamente parlato di omertà, di misure da prendere, ho creduto di cogliere in loro una richiesta di aiuto.
Ho salutato i ragazzi facendo loro notare che, anche se venire a conoscenza di certe esperienze mi aveva riempito di tristezza, lo scopo del nostro modulo era stato raggiunto. Partiti da un regolamento di classe ci eravamo spinti ad analizzare diritti e doveri nella storia e nella Costituzione, fino a comprendere il nostro ruolo attivo nell’affermazione e nello sviluppo di questi.
Ho fatto rilevare che non era un caso, secondo me, se, al termine di un modulo di questo tipo, fosse nata una nuova consapevolezza anche nell’affrontare la loro esperienza ed avessero sentito l’esigenza di aprirsi.
Ho continuato a seguire “a distanza” la situazione, ho parlato direttamente, come avevo anticipato ai ragazzi, al loro capo scout. Mi ha riferito che quella discussione scolastica li aveva portati a parlarne a genitori e responsabili e che già il giorno dopo erano stati presi provvedimenti in varie direzioni.
Come diceva al seminario sulla scrittura una tirocinante: -Ma non era più facile insegnare piuttosto una materia come matematica?-