Filippo La Porta, nell’introduzione a un volumetto di scrittori-insegnanti sulla scuola, Consiglio di Classe, uscito da poco per Ediesse, scrive che “Non si ragiona abbastanza sul conflitto che si è formato tra la scuola e la società (come si è andato configurando nell’ultimo decennio)”.
Lo scollamento, il conflitto come giustamente lo chiama La Porta, sono talmente clamorosi che bisogna davvero essere distratti per non accorgersene – e se la cultura italiana più che distratta è spensierata, il conflitto fra scuola e società data molto più di un decennio. Personalmente, se mi è consentito un riferimento autobiografico, ho visto la macchina dell’annientamento al lavoro nella sua versione strutturale dalla fine degli anni ottanta, lavorando in alcune scuole private, dove, prima del tracollo di Tangentopoli, l’aziendalismo straccione già dettava legge.
Notavano fra gli altri alcuni anni fa Luc Boltanski o Serge Halimi che si era verificata una perversa coincidenza fra pensiero libertario e liberismo aziendale. Oggi, professori che ancora insistono sulle povere creature che non vanno mai bocciate, secondo un pensiero antiautoritario che non ha più senso, non si rendono conto che proseguono a scuola il dettato liberista (la cui versione italiana è la peggiore in circolazione) dell’assenza di regole. Non è quello il campo di battaglia contro le truppe che si nascondono dietro la Gelmini (che è solo una mascotte) – non sono più i tempi dello Starnone d’antan: onore ai suoi vecchi libretti, ma adesso è davvero tutta un’altra storia.
Se si è ancora convinti che il cambiamento passi dall’alfabetizzazione, se davvero vogliamo farcene carico per riaccendere un’idea di futuo, be’, smettiamola con il vittimismo – altrimenti ci saremo meritati il peggio. Se l’Italia delle persone colte, scrittori in primis (cittadini che dovrebbero fabbricare lingua prima di storie!, immaginario prima che colpi di scena!) non se ne rende conto, tutto è perduto.
Per queste ragioni, in Consiglio di Classe gli scritti più interessanti sono quelli che deviano dal linguaggio didattico-didascalico-pedagogistico. Come succede a Edoardo Albinati, per esempio, che riprende il racconto della sua esperienza in carcere del romanzo Maggio Selvaggio; è evidente che il modo in cui cerca il contatto con i detenuti studenti non può prescindere, anche se lui per pudore forse non lo direbbe, da un certo carisma. che non si può imparare per decreto, né ricevere con un attestato in un corso tutta fuffa tenuto dal pedagogista ammanicato con i partiti. I tre articoli del critico de “il manifesto”, Massimo Raffaeli, sebbene scritti una decina di anni fa, sono ancora utili per chi, fuori della scuola, volesse farsene un’idea. E credo lo sappia bene il paesologo Franco Arminio che nel suo raccontino conia per sé una nuova definizione: il maestro sabotatore. Arminio rifiuta sanamente i triti e ritriti clichè pedagogistici degli ultimi infami decenni. Fategli sentire il verbo “interagire” e vedete come reagisce.
Va da sé che la scuola dovrebbe mostrare ben altra forza per uscire dall’angolo in cui l’hanno cacciata. Non la si dovrebbe lasciare a Mastrocola. Poiché invece i tempi sono questi, alla Mastrocola le si riconosce persino lo status di scrittrice. Se la scuola la raccontiamo ai cani secondo me c’è qualcosa che non va.
Leggete invece ciò che scrive l’ex maestro di strada Mario Rossi Doria. Vedete con quale disincanto e presenza (avremo mica paura di un ossimoro?) prova a ricostruire quotidianamente un filo fra scuola e mondo, ben sapendo che è una sfida bellissima solo perché impossibile. Guardatelo mentre insegue le storie dei nuovi flaneur, barbari e paradossali, letteralmente schizzati rispetto al vagabondaggio culto de Baudelaire e Benjamin. Guardate quanta vita si annida lì dentro.
Così, è certo un’esperienza importante quella di Eraldo Affinati, impegnato nella “Città dei ragazzi”, scuola multietnica romana. Ma il suo breve scritto svolge considerazioni un po’ generiche d’impianto pedagogistico sull’”originalità indissolubile” di ogni studente e la necessità di valutarlo a partire da questo: e non capisce Affinati che ciò può andare bene in quel contesto, o nelle situazioni più difficili, ma oggi in Italia con ciò si rischia di rinunciare, secondo l’imperante dogma dell’opinione, a qualsiasi standard linguistico e formativo minimo, ossia a un vocabolario di conoscenze imprescindibili. La via da lui indicata, se presa come un assoluto, fa il gioco delle mille scuole diverse che atomizzano l’insegnamento in totale discrezionalità. A quel punto, piantiamola di parlare di Costituzione, di significati condivisi. Se in ballo, fra le altre cose, v’è anche la nuova dissonanza fra il mondo repubblicano, laico, liberal-democratico dell’occidente europeo e le culture degli immigrati, non bastano formule rassicuranti. Né fuori, né dentro la scuola. Altrimenti, aboliamola, sul serio. Chi ha più mezzi per vendere la sua idea di mondo – per venderti il suo mondo, sarà il padrone. Come sempre.