G. Pontiggia, Nati due volte, Milano, Mondadori, 2000, pp. 43 – 50
Ho insegnato per anni in un Istituto d’Arte. Vi ero entrato (seconda nomina) quando ne avevo ventotto. Non avevo mai conosciuto un disabile. Oggi ne vedo molti, non so se perché l’occhio si è affinato o il numero é aumentato. Credo tutte e due le cose.
In una classe avevo un’alunna bionda al primo banco. I capelli fluenti sulle spalle larghe, il viso rotondo, mi sembrava una nuotatrice australiana appena uscita dalla piscina e rivestita dopo un allenamento. Il corpo esprimeva scioltezza e forza. Serena, intensamente inespressiva, gli occhi luminosi, seguiva la lezione con una attenzione ipnotica.
La prima volta che la interrogo a lato della cattedra, le mani dietro la schiena, statuaria e composta, non capisco quello che mi risponde.
“Puoi alzare la voce?” le chiedo.
Butta indietro la testa, stringendo le labbra, e mi fa cenno di no, come se le chiedessi qualcosa di impossibile.
La guardo stupito e allora lei si volta verso la classe, quasi a domandare aiuto. Qualcuno qua e là, tra i banchi, sorride. Lei si gira di nuovo verso di me, bisbiglia parole incomprensibili.
Io allungo il collo nella sua direzione e le faccio segno di parlarmi all’orecchio. Piego con la mano sinistra il padiglione, formando l’incavo a conchiglia tipico dei sordi (lascio “non udenti” a chi non ha familiarità con l’handicap). E lei si curva verso di me, rossa in viso, sussurrandomi con una voce fioca.
“Mi scusi non riesco a parlare più forte.”
“Non si preoccupi” le rispondo con aria spavalda, “Si fa capire benissimo.”
Ho pochi anni più di lei e mi sento disponibile, generoso, corretto, liberale. Un giovane insegnante magnifico all’altezza del compito. la classe ridacchia, alcuni si sottraggono al controllo curvandosi dietro le spalle del compagno, altri si toccano con i gomiti, altri vorrebbero frenare un riso convulso e trasformano il rictus in un nitrito silenzioso.
Chiedo alla ragazza risposte brevissime: titoli, date, luoghi, nomi, nozionismo puro (del resto non spregevole, come si capirà quando lo si sarà abrogato). E lei fa brillantemente la sua parte, sorpresa dalla mia metamorfosi nell’interrogare.
La congedo con un largo sorriso e un lieve sudore sulla fronte. É preparata, le do un voto alto, scrivendolo sul registro con una gestualità trasparente. Sono un piccolo eroe della didattica moderna, funzionale e disinvolta. Anche la classe sembra apprezzare, qualcuno è passato dal riso al sorriso, che non è un’acquisizione da poco.
La sua compagna di banco, mentre lei siede al suo fianco, stanca e felice, mi informa che questi problemi sono minori con gli insegnanti delle materie tecniche, dove si parla di meno. Solo con il professor Cornali, di storia dell’arte, le difficoltà si ingigantiscono. Me lo comunica con una franchezza spigliata, facendosi sentire dalla compagna, che annuisce, e dalla classe, che si riconosce nelle sue parole. É la mia delatrice ufficiale, a metà tra il rappresentante sindacale e il legato dell’esercito.
“Perchè con il professor Cornali ha problemi?” le chiedo.
“Perchè lui dice che è sordo.”
La classe rumoreggia moderatamente, offrendo la conferma di un coro scettico.
La ragazza aggiunge:
“Invece sente benissimo. Fa così per metterla in difficoltà.”
La verità probabilmente sta in mezzo. Il professor Cornali è forse un po’ duro d’orecchio e la ragazza gli crea qualche problema, fraternamente ricambiato.
“Verificherò” commento.
Ho verificato. Ma in mezzo sta la virtù, dice Orazio, non la verità. Altrimenti sarebbe risolto il problema. La verità, per quanto riguarda gli uomini è sempre diversa.
Cornali non ha disturbi di udito. Ha invece disturbi nei rapporti con gli studenti. In questo non si distinguerebbe da nessuno di noi.
[…]
Cornali ha però disturbi particolari con chi soffre di disturbi. É un tratto che ho messo a punto più tardi, osservando le reazioni che i disabili suscitano in una specie ignorata di disabili, quelli normali.
[…]
Cornali ha preso subito di mira la ragazza. Ha finto di compiere ogni sforzo, per riuscire a sentirla – così mi ha raccontato la delatrice durante l’intervallo, nel vano della finestra in corridoio, tra gli sguardi fuggevoli e ammiccanti delle compagne di passaggio – e ha chiesto minuziosi ragguagli sulle cause del suo disturbo, contribuendo ad accentuarlo. Ogni volta mostrava di capire troppo poco ciò che lei gli diceva, curva sulla cattedra, a distanza ravvicinata. No, lui non si faceva parlare, vicino all’orecchio, anzi, una volta che lei si era accostata, l’aveva allontanata con un gesto violento. Lei era scoppiata in lacrime.
Scopro ciò che avrei dovuto immaginare. Ogni insegnante ha un problema diverso con la ragazza, secondo la diversa materia. Ma ognuno riesce ad aggirare l’ostacolo. Questo attenua l’orgoglio per la mia versatilità: Essere primus inter pares non ha mai appagato una ambizione, soprattutto quando pares sono tutti gli altri. L’unica eccezione è Cornali, che al mio fianco, nella seduta dello scrutinio, mi chiede, quando si è prossimi al nome della ragazza:
“Ma tu capisci qualcosa quando parla?”
“Sì, tutto” rispondo pacatamente.
“Come tutto?” replica. “Ma allora io sono sordo!”
“Può darsi” rispondo, gettandogli una occhiata.
“Ma smettila!” esclama. ” Siamo seri! Di’ che capisci una parte.”
“Quasi tutto.”
Introduco la correzione del quasi, sempre preziosa per la credibilità del tutto.
Lui scuote la testa.
“Io non le do la sufficienza.”
“Perchè?”
“Perchè non la capisco” risponde reciso. “Non capisco che cosa dice. Sarà un limite mio.”
“Certamente.”
” Comunque abbiamo tutti i nostri limiti. Lei ha i suoi, io i miei.
“Non puoi fare qualcosa per superarli?”
“L’ho fatto, credimi” mi dice contrito.
Aggiunge:
“Non riesco. É una bella disgrazia.”
“Quale?”
“Avere un difetto come il suo. Non so come chiamarlo, se atonia, afasia, timidezza, blocco emotivo.”
“Sai qual è la vera disgrazia?” rispondo, senza smettere di guardare avanti, verso la finestra chiusa dalle inferriate. “Avere una testa come la tua.”
[…]
“Stai scherzando, vero?”
[…]
“Io non voglio offenderti” ” gli dico con un tono più basso, quasi fosse una confidenza. “Solo che sarei io l’insegnante all’antica. Me lo rinfacci di continuo. E tu, che cosa sei?”
É sempre bene, attaccando, fingersi aggredito.
Lui approfitta dell’alibi che gli offro e attenua il tono.
“Dico che sei troppo esigente.”
“Ma tu cosa pretendi da una ragazza handicappata?”
[…]
Macché handicappata! É immatura! Il suo comportamento lo dimostra! Non dobbiamo incoraggiare chi ha un difetto, dobbiamo stimolarlo a vincerlo!”
[…]
“Mi spiace di averti parlato così.” […]
Aggiungo:
“Scusami.”
Lui stringe le labbra pensieroso. Immagino che si ritenga risarcito e soprattutto esentato da un seguito problematico delle ostilità.
Commetto un errore:
“Che voto le dai?”
“Quattro” mi risponde.