Una interessante recensione tratta da Alias che ribalta l’ultimo saggio della Mastrocola in un romanzo “piemontese”.
Recensione al pamphlet Togliamo il disturbo di Paola Mastrocola pubblicata su ALIAS, supplemento settimanale del Manifesto, n° 10 – 12 marzo 2011, p. 15.
Sommario: Il libro-denuncia di Paola Mastrocola dà voce alla classe docente, alle prese con i tagli e gli studenti-massa che pensano solo ai videogiochi: ma per capirne il messaggio “di sinistra” bisogna leggerlo come un romanzo piemontese.
Istituiamo tre scuole: una che insegni il lavoro manuale all’aristocrazia artigiana, una che accompagni la massa dei giovani a fare quello che già la società della comunicazione ha insegnato loro a fare, ovvero comunicare il loro medio-neutro stare al mondo preferibilmente attraverso strumenti informatici e, infine, una scuola destinata a trasmettere la conoscenza.
Questa terza scuola è ovviamente la scuola per eccellenza, quella che riempie lo studente di nozioni, lo costringe a stare seduto per ore da solo a casa a studiare e si basa sul principio che per lo studente ciò non sia affatto una costrizione, ma un piacere, poiché per lo studente “che studia” (Totò) la solitudine pensosa nutrita di letture scolastiche porta alla “felicità mentale”, simile a quella che – immaginiamo – la grande filologa Maria Corti scovò nel sodalizio intellettuale di due giovani di talento della fine del Medioevo, Guido Cavalcanti e Dante Alighieri.
Ecco la proposta idealistica e polemica che la professoressa e romanziera Paola Mastrocola articola nel suo recente pamphlet Togliamo il disturbo. Saggio sulla libertà di non studiare (Guanda, pp. 277, € 17,00). Da collega, posso dire che, di primo acchito, la proposta allarga il cuore di tutti i professori più bravi e appassionati delle proprie materie. Vorremmo tutti, docenti di alta, media e bassa qualità, insegnare nella scuola della conoscenza. Viene in mente uno dei luoghi comuni del Dizionario di Gustave Flaubert: “Il mondo si divide in affittuari e proprietari. Il vostro stato? – Proprietario”.
Ma il problema della democrazia è che ha bisogno di cittadini, ovvero di persone che, quando vanno a votare, sappiano più o meno cosa stanno facendo. La democrazia porta dunque di necessità a una scuola della conoscenza diffusa. E qui la contraddizione purtroppo è già evidente: diffondere la conoscenza a tutti implica di per sé un complesso di facilitazioni varie che trasforma la scuola della conoscenza in scuola della comunicazione, delle “competenze” e quindi, in ultima analisi, a un deterioramento della trasmissione del sapere. Non è facile uscire dal paradosso. Vorrei perciò sottrarmi all’esercizio dell’esaltazione o della denigrazione della proposta di Paola Mastrocola. Ciò che mi preme sottolineare è che l’autrice dà voce alla classe docente, spiega quello che quasi ogni insegnante pensa tra sé, ma raramente dice. Abituato a parlare in aula, ma non a sentirsi in gruppo, chi insegna è un cittadino mediamente colto e interessato alla società che lo circonda, che tuttavia socialmente non esiste.
Perciò Togliamo il disturbo è un documento importante. La domanda terribile che esso contiene è terribile. A cosa serve oggi la scuola, in un’Italia, anzi in un Occidente post-agricolo e post-industriale che si avvia a diventare anche post-terziario? A niente. E il professore ne soffre, perché vorrebbe sentirsi utile, cioè cominciare l’anno con studenti ignoranti, ma pronti a imparare, e salutarli a fine anno più colti, consapevoli e grati. Invece il professore è un peso sul bilancio dello Stato, è qualcosa che costringe il governo (Berlusconi, ma non solo) a “mettere le mani nelle tasche degli italiani” e dunque va tagliato nel numero e spremuto nella sostanza. Ampliando lo sguardo, è nella situazione del medico ospedaliero, dell’operaio della Omsa o della Fiat, del giornalista (del Manifesto, ma non solo) e di molte altre figure professionali. In Togliamo il disturbo, il grido di dolore della docente incompresa si fa di conseguenza atto d’accusa verso la decadenza culturale dell’Occidente, riprendendo le fila di un discorso che Lucio Russo aveva con grande chiarezza e coraggio delineato in Segmenti e bastoncini già nel 1998.
La scuola, denunciava Russo, sta abbandonando il pensiero astratto (p. es. il concetto di segmento) perché lontano dalla realtà immediatamente tangibile e sta inseguendo la chimera del pensiero concreto (cioè il bastoncino). Dietro l’apparente democratizzazione di questo insegnamento basato sulle cose si nascondeva la tragedia della deindustrializzazione del Paese, che portava con sé la necessità di cambiare il paradigma educativo. Il pensiero astratto serve a formare il fisico, l’ingegnere, lo scienziato. L’esempio offerto da Lucio Russo era quello del fisico Federico Faggin: perito industriale nel 1960, laureato in fisica nel 1965 a Padova, emigrò nel 1968 negli USA dove nel 1971 inventò, insieme a due colleghi, il microprocessore. Nel frattempo, l’Italia rimaneva sempre più indietro nel campo della progettazione e della produzione informatica, fino a esserne completamente fuori. Destinata a diventare un paese di consumatori, la sua scuola doveva abbandonare il segmento per concentrarsi sul bastoncino.
Di qui, allo studente-massa ritratto dalla Mastrocola, che non studia, ma gioca a un videogioco di cui ignora l’impalcatura teorica e ingegneristica, il passo è breve. Inevitabilmente parlare della scuola porta subito a parlare di altro, ovvero della società che crea e alimenta quella scuola. L’autrice, che descrive con notevole abilità linguistica e letteraria la società con cui viene a contatto, ovvero gli studenti del liceo scientifico e i loro genitori, sa però concentrarsi su obiettivi circoscritti. Vorrebbe cioè poter continuare a trasmettere il codice letterario e la cultura necessaria a comprendere Tasso, Dante, Petrarca o Irène Némirovsky (a leggere Alias, insomma). I suoi studenti, invece, non solo non leggono, ma neanche vanno più al cinema, perché non riescono a stare seduti due ore. I genitori (votano tutti Berlusconi? hanno tutti la scheda Mediaset premium per vedere il calcio e il cinema sul televisore gigante?) li approvano. Il Paese è sull’orlo della catastrofe. Italiani, svegliatevi.
L’efficacia del pamphlet sta, a mio avviso, nella sua anima romanzesca. L’autrice ha costruito un personaggio, la professoressa torinese di mezz’età, e l’ha lasciata parlare. Le ha donato pensieri, manie, idee e fantasie che sono di certo le sue, ma al tempo stesso costituiscono un profilo letterario che in un’ottica storico-geografica, potremmo definire novecentesco-piemontese. La voce del pamphlet è quella di una docente torinese nata alla metà del XX desiderosa di trasmettere alle nuove generazioni una tradizione di studi solidi e giustamente noiosi che caratterizza il Piemonte (l’anglo-piemontese Carlo Dionisotti, il germanista Cesare Cases, il linguista Gianluigi Beccaria, la redazione dell’Einaudi, o della rivista “L’indice”, con la sua operosità classificatoria degna di un erudito settecentesco), coniugata però con un esercizio altrettanto solido della fantasia (Italo Calvino soprattutto, alla ricerca dell’esattezza e della leggerezza, il professor Eco, ma anche Fenoglio e Pavese, con il loro affannarsi sull’inglese e la passione per la terra) e il rispetto per il lavoro manuale fatto come si deve (penso al Primo Levi della Chiave a stella e del Sistema periodico), se non, addirittura, l’amore per la libera impresa di Luigi Einaudi.
Lo strazio della Mastrocola è non vedere nei suoi studenti una generazione in grado di accogliere questo complesso di lasciti, di cui lo studio letterario è parte integrante, produttiva, e non uno sterile esercizio di irrealtà. In conclusione e per paradosso, è solo a partire da questa lettura romanzesca e regionalistica di Togliamo il disturbo (lo dico da romano) che se ne può cogliere appieno il messaggio politico (sì, di sinistra) valido per l’intero Paese, o per l’intero Occidente.
Trovo il libro di Paola Mastrocola orribile, come il suo precedente di argomento affine. Si tratta di una patetica e passatista rappresentazione dei “classici” ridotti a feticcio e magicamente capaci di elevare lo spirito, per virtù propria; si tratta di una patetica rappresentazione di un certo tipo di docente, che definirei “vestale della classicità”; si tratta di una patetica manifestazione di incapacità di rappresentare la condizione del rapporto insegnante-studente in una società di massa fortemente de-scolarizzata (e non per colpa di Ivan Illich: si tratta di un fenomeno osservato dall’OCSE da ormai più di quarant’anni) dalla diffusione di modelli e processi culturali – in senso anche antropologico – che travolgono la scuola e la relativizzano ad una fra le tante agenzie di formazione, fra loro alternative o in competizione. In queste condizioni non credo proprio che si possono far amare i “classici” nella prospettiva che i lamenti di Mastrocola indicano. I classici non sono oggetti di culto – e non appaiono così nemmeno nella magnifica descrizione che Calvino ha fatto dei motivi per leggerli – ma neppure strumenti di una “distinzione sociale” che confina con lo snobismo. L’unica strada possibile è, a mio parere (insegno filosofia e scienze sociali in un Liceo) la ri-mitizzazione degli autori di riferimento e l’utilizzazione degli autori come propedutici alla comprensione della complessità del mondo contemporaneo: proprio loro che non vivono nella complessità del contemporaneo ma avevano una rappresentazione complessa del loro. É la strada indicata, credo, da Martha Nussbaum, perchè la crescita di una tale sensibilità per la visione complessa aiuta allo sviluppo di un atteggiamento civilmente democratico, elemento essenziale della convivenza nella società di massa glonalizzata: e i “classici” non sono vissuti in epoche che possono essere definite democratiche. Mummificare Tasso non giova alla democrazia, nemmeno in senso estetico. Tasso è stato studiato in contesti sia clericali che fascisti che post-fascisti: non dice nulla, perciò, su un problema del genere.
Non mi riconosco nell’immagine dell’insegnante presupposta da Mastrocola: nel suo genere quell’insegnante è rappresentato a livelli qualitativi altissimi ma … non è quello il tipo di insegnante che si richiede. Non lo è più. L’insegnante è un mediatore, che deve inventarsi strategie e linguaggi e modalità comunicative per stabilire contatti con una cultura e un mondo, quello giovanile, che parlano e vivono in modi e con sensibilità diverse, con stili di apprendimento spesso molto diversi dal suo stile di insegnamento. L’insegnante è una specie di antropologo, che vive a contatto con una comunita di “nativi digitali”, con strutture cognitive e psichiche molto diversa dalle sue (originate da “Homo Gutenbergensis”): la nuova specie umana la si potrebbe definire “Homo Zukerbergensis”. Si potrebbe continuare a lungo con la descrizione di questa nuova specie umana (per indicare alcuni tratti critici: scarsa resilienza, “passioni tristi”, “cultura del narcisismo”, rigetto della “fatica del concetto” come scriveva Hegel); queste sono, però, le condizioni psico-sociali in cui l’insegnante lavora, sono contesti storici ancora prima che lamentele sulle qualità dei nuovi mostri. Preferisco, perciò, sottolineare il fatto – decisivo – che il contesto socio-culturale non protegge affatto e non incoraggia la figura dell’insegnante, come dimostrano i tagli economici alla scuola pubblica, l’autonomia scolastica ridotta a regolamento (non è una legge) e al solo aspetto didattico, la trasformazione del docente in “impiegato” a carriera bloccata (settimo livello, se vuoi altro smetti di insegnare), la persistente femminizzazione (molte insegnanti sono innanzitutto casalinghe), cosa che la dice lunga sulla marginalità della figura del docente.
Infine un’osservazione sul metodo: Mastrocola liquida gli autori a lei sfavorevoli attraverso un uso “in peiorem partem”, cioè pregiudizialmente negativo, di frasi scelte “ad hoc”. Attraverso la sistematica demonizzazione di figure come Don Milani e Gianni Rodari vengono così ridicolizzate esperienze didattiche ricche di contenuti sociali e di importanti intuizioni elaborate dalle moderne e contemporanee psicologia scolastica ed evolutiva. Anche la correlativa utilizzazione di autori a favore è viziata dallo stesso approccio, ovviamente rovesciato. Così, un autore come Gramsci, uno dei campioni della critica alla scuola come “cinghia di trasmissione” dei valori dominanti e punto di riferimento nel dibattito sulla “descolarizzazione”, diventa un campione del modulo “classicista” per il fatto dei suoi studi “matti e disperatissimi”, che denunciavano, però, proprio il furto di formazione e istruzione da parte di una cultura che trova nei “classici” un motivo ideologico della propria egemonia culturale.
Io non rinnego affatto i classici: nel mio lavoro quotidiano li tratto come ideali interlocutori quotidiani, tutte le volte che posso, e aspetto che gli studenti finiscano col notarlo e col chiedermi il perché. Purtropo, molti lo considerano uno “stigma” per collocarmi fuori del loro mondo, ma solo così divento un punto di riferimento.
Questo mi induce a pensare che il vero “classico” non sia Torquato Tasso, ma l’insegnante stesso, il modello di intellettuale che rappresenta, di fronte agli studenti: che restano perplessi se non trovano corrispondenze in se stessi, o anche rassicurati, proprio per questa mancanza di riscontri con l’adulto, incontrato su questi strani confini del pensare e del sentire.
Paola Mastrocola non mi aiuta in questo lavoro di “contatto”. L’istruzione è meticciamento, oggi, non ripetizione di modelli immobili. Io non tolgo il disturbo: perciò … No grazie, Paola: preferisco la mia marginalità partecipante.
Non ho amato questo libro. Non l’ho amato come lettrice nè come lettrice-insegnante. L’ho trovato addirittura fastidioso, soprattutto nei passi in cui parla di Don Milani, che io ritengo ancora un faro nell’educazione. Questo tipo di argomenti mi ha stancato perché di docenti che si lamentano di “come è cambiata la società”, di come “sono cambiati i ragazzi” e di come “la scuola non è più come un tempo” ne ho sentiti troppi. Anche le soluzioni proposte dalla Mastracola non mi hanno convinto: io ritengo che proprio oggi, i ragazzi abbiano più bisogno di cultura e la scuola E’ cultura. Credo ci voglia più coraggio e forse è proprio il denigrato Don Milani che può suggerirci la soluzione per colmare le lacune degli alunni e della scuola; dovremmo essere più disponibili. Non possiamo cavarcela ( noi maestri ) con 22 ore settimanali di lavoro per 9 mesi scarsi all’anno, con i ragazzi . Dovremmo esserci di più, soprattutto per chi ha più bisogno di noi, fare corsi estivi di recupero, mirati nelle varie discipline finché ogni alunno non abbia raggiunto il proprio obiettivo. Non mi sembra un percorso impossibile soprattutto se può portarci alla riconquista di un ruolo sociale e culturale importante e soprattutto se, finalmente, può aiutare i ragazzi ad uscire dal “pantano” culturale in cui spesso si trovano.