Tratto da “La Sicilia” del 20/11/2011
«Tra dieci anni l’utero artificiale produrrà “bambini perfetti” e non si vedrà perché tutti i “falliti” per nascita o incidenti dovrebbero aver diritto all’assistenza sociale: ha davvero senso investire tempo e denaro nella cura dell’irreparabile? ». Julia Kristeva, una delle voci più alte della semiologia e della psicanalisi d’Oltralpe, lancia la domanda come un grido d’aiuto all’amico Jean Vanier, filosofo, ma soprattutto fondatore dell’Arca, un movimento che conta 130 comunità sparse nel mondo dedite ad accogliere persone con handicap.
Il grido dell’analista e quello della madre La domanda della Kristeva non viene solo da una esperta che deve confrontarsi professionalmente con i traumi psichici prodotti dall’handicap, viene anche da una madre che vive sulla propria pelle l’esperienza di un figlio disabile. Un ragazzo che per ben due volte è caduto in coma, ma si è riavuto tornando alla vita, ri-nascendo assieme a sua madre. Lo scambio di lettere intercorso nel periodo 7 giugno 2009-22 agosto 2010 fra Julia Kristeva e Jean Vanier è pubblicato ora in volume dall’editore Donzelli col titolo Il loro sguardo buca le nostre ombre. Il titolo, che fa riferimento a una pièce di Ibsen (“Il piccolo Eyolf”, 1894), offre la chiave di lettura del dialogo fra i due grandi intellettuali europei. Lo sguardo delle persone con handicap squarcia l’abitudine e la routine con cui i cosiddetti “normali” guardano la realtà. In questo modo il dibattito resta sempre aperto sui due poli: da un lato la compagnia da fare ai disabili, dall’altro l’urgenza di un cambiamento di mentalità. «Sento il tuo grido – scrive Jean Vanier il 15 luglio 2010 – il grido dell’analista, il grido della donna, della mamma: ’Dove ci sta portando questo mondo?’ Alcuni politici credono di risolvere i problemi distribuendo denaro (talvolta addirittura togliendo le sovvenzioni), quando in realtà servirebbe un autentico cambiamento dei cuori». Umanesimo contro barbarie.
La Kristeva, che è all’avanguardia del pensiero strutturalista francese, osserva il futuro del nostro continente e intravede ombre fosche addensarsi all’orizzonte. «L’ombra del nulla – scrive il 2 agosto 2010 – la cui seduzione aumenta in tempi di rigore, austerità e disoccupazione galoppante, lascia temere che l’eutanasia dei portatori di handicap emerga dagli inconsci e dai preconsci dove sonnecchia e che, passando tra i cavilli, s’intrufoli più o meno furtivamente nelle finanziarie». E di fronte a un tale pericolo la psicanalista chiama a sostegno Jean Vanier: «Noi – scrive – saremo tra quanti si opporranno a una simile barbarie. E forse l’umanesimo, in questo estremo limite della civiltà, troverà la sua vera rifondazione».
Vanier utilizza nelle sue lettere il registro del racconto. Descrive la sua vita, gli anni trascorsi come ufficiale in marina, il periodo di insegnamento in Canada e, soprattutto, i decenni trascorsi a fianco dei disabili nelle comunità dell’Arca. Dei suoi amici handicappati racconta storie, aneddoti, esperienze di vita. «Nelle nostre società costruite sulla competizione – scrive all’amica Julia – i disabili apportano un’altra visione, il senso del rapporto e dell’ascolto reciproco. Vedere nell’altro il diverso, un valore in sé, un dono, imparare ad accoglierlo e a diventare più umani». Il segreto dell’«arca». Il fitto scambio epistolare fra Kristeva e Vanier nasce dalla curiosità sorta nella psicoanalista dopo aver visitato una comunità dell’Arca col figlio. E’ questi a suggerire alla madre un giudizio: «Un po’ di umanità in un mondo di bruti». La Kristeva, come madre e come intellettuale, vuole indagare le origini di questa umanità. Ella ha visitato centinaia di centri per handicappati in tutto il mondo, ma mai ha trovato un clima come quello intravisto all’Arca. Per questo scrive a Vanier, chiedendogli di svelarle il segreto. La risposta arriva con disarmante semplicità: «L’Arca è stata fondata da qualcuno [allude a se stesso] che non ne sa niente [di handicap], ma è desideroso di seguire Gesù. (…) Io ho seguito l’esperienza della vita con le persone deboli, sorretto dalla mia fede in Cristo e dalla mia vita di preghiera». E riguardo agli operatori aggiunge: «Le persone pensano che, per restare all’Arca, occorra essere una sorta di eroe, un santo. Ma non è vero: restiamo all’Arca perché ci piace. E’ un piacere di ordine spirituale, interiore, che sgorga da un autentico incontro con delle persone disabili, che a poco a poco diventa una forma di amicizia ». E, in un’altra lettera, spiega: «L’Arca non è solo un posto dove si fa del bene a persone disabili; noi non siamo qui per aiutare i senza tetto a trovare lavoro o alloggio, ma per vivere insieme la nostra umanità, per dirci la nostra amicizia». Una scuola con maestri speciali Da questo punto di vista l’Arca diventa quasi una scuola «dove ognuno impara a conoscersi e ad amarsi così com’è senza vergogna».
Una scuola dove gli handicappati diventano a loro modo maestri: «Le persone come David [è il figlio della Kristeva], con i loro handicap, possiedono una saggezza che noi ignoriamo, che dobbiamo ancora scoprire andando a scuola da loro». Nell’ultima parte dell’epistolario, Vanier apre il proprio cuore all’amica. Ormai ha 82 anni, è stato da poco sottoposto a un intervento chirurgico e decide perciò di lasciare ogni responsabilità sia nelle comunità dell’Arca, sia nel movimento da lui fondato, “Fede e Luce”. «Mi sento più libero», scrive. E subito dopo aggiunge: «Riconosco che mi è pesato molto non potere più incontrare e sostenere le comunità in giro nei vari paesi, ma è grande la gioia di vedere crescere responsabili in seno all’Arca e a Fede e Luce per guidare quelle comunità (…) La vita è come un fiume: trattenere il potere significa rifiutare il movimento della vita».