«Cent’anni, una fama estesa a tutto il pianeta e a tutti gli idiomi, la capacità di sopravvivere indenne ai mutamenti del gusto, delle mode, del linguaggio, del costume senza mai conoscere periodi d’eclisse e d’oblio […]»[1]
Così Italo Calvino riassume la fama del Pinocchio nel 1981, anno del centenario dall’inizio della pubblicazione dell’opera sul Giornale dei bambini. Sono passati trent’ anni e l’analisi di Calvino è ancora attuale. (Pinocchio in edizione Bemporad, illustrato da Mussino)
Carmelo Bene fino al 1999 ha continuato a lavorare sul Pinocchio a teatro, per la televisione e la radio. Roberto Benigni nel 2002 ha prodotto e interpretato un celebre e costosissimo Pinocchio. Le pay-tv continuano a mandare in onda cartoni animati il cui protagonista è il burattino di legno. La Disney nel 2009, per festeggiare il settantesimo anniversario della celebre pellicola del 1940, ha restaurato il film e distribuito in dvd e Blu-ray disc un’edizione speciale. Nelle librerie è possibile reperire le più varie edizioni, illustrate e non, della storia del burattino.
Nonostante i suoi centotrenta anni, Pinocchio è un’opera vitalissima e amatissima, capace di sopportare attualizzazioni e interpretazioni, senza mai perdere la propria originalità. E rimanendo sempre, insieme alla Divina Commedia di Dante e al Principe di Machiavelli, il libro italiano più letto e tradotto al mondo.
Questo mirifico libro per ragazzi si è imposto da solo, al di là delle valutazioni letterarie del tempo, e, dal 1883, anno della pubblicazione in volume col titolo Le avventure di Pinocchio, ha segnato e determinato l’immaginario e le fantasie di milioni di persone nel mondo. È evidente che Pinocchio è molto più che un libro per ragazzi, del quale, del resto, ha la leggerezza, l’inventiva, la fantasia, l’incanto. Sulla base di questi elementi mi è sembrato quasi naturale, negli anni passati, pensare di lavorare sul Pinocchio al biennio, esattamente come si lavora sui Promessi sposi. Se quest’ultimo, infatti, è un romanzo fondamentale per capire la letteratura italiana dall”800 in poi, col Pinocchio si fa leva su un immaginario consolidato, sulla capacità narrativa, sulla fantasia, sul desiderio di ribellione degli studenti. Legare il Pinocchio ai Promessi sposi consente, inoltre, al biennio, ma ancora meglio al triennio, di delineare un percorso di grande interesse e che può essere seguito fino ai nostri giorni (penso a La coscienza di Zeno, a I vecchi e i giovani, a Il barone rampante, a Lessico famigliare, etc).
Il percorso parla di italiani alla ricerca di padri e della definizione di un modello familiare, a partire dall’inizio dell”800, con Le ultime lettere di Jacopo Ortis, passando attraverso I Promessi sposi e Le confessioni di un italiano fino ad arrivare al Pinocchio e a I Malavoglia. Soluzioni problematiche, diverse, complesse per un’Italia ancora da fare, o che si è fatta da poco, e per italiani che cercano punti di riferimento forti che a livello sociale e politico non hanno mai avuto. Padri naturali, padri politici, padri d’elezione, mortali ed eterni. Ma soprattutto padri letterari, da Dante a Parini, gli unici che siano talmente forti da dare il senso della continuità, della tradizione, dell’identità a una nazione in fieri. Tanti padri inadeguati compaiono nell’Ortis, che si conclude col finale rinnegamento del Padre per antonomasia, Dio. Nei Promessi sposi ci sono padri che incarnano il bene e padri che incarnano il male. Ma c’è anche una famiglia che, nell’ottica di Manzoni, è un modello possibile nella società dell’Ottocento, perché si pone come una sorta di argine contro l’ineludibile male che domina la realtà, come unica possibile cellula di resistenza, a patto però che il grande padre rinnegato nell’Ortis, Dio, venga riconosciuto nel suo valore consolatorio e fondativo. L’assenza di padri, biologici o sostitutivi, che medino il desiderio e accompagnino verso la realtà emerge ne Le confessioni di un italiano, in cui Carlino crea la sua famiglia borghese con Aquilina sacrificando l’amore per la Pisana.
Pinocchio è altro. Un libro per ragazzi, dal particolare, ma mai bieco, intento pedagogico che presenta una complessità e, contemporaneamente, una leggerezza sconosciuta ad altri libri di stampo pedagogico che abbiano un valore formativo per i giovani della nuova Italia (mi riferisco a Cuore, chiaramente). Fra figure fantastiche, avventure, incongruenze e contraddizioni, pedagogismo e cinismo, anche Pinocchio cerca un padre. E lo cerca fuggendo da lui. Nella fuga troverà una madre.
«Ti mando questa bambinata, fanne quel che ti pare; ma, se la stampi, pagamela bene per farmi venir la voglia di seguitarla»[2]. Sembra quasi che il padre letterario di Pinocchio, Collodi, abbia della sua creazione un po’ di quella incoscienza che Geppetto ha inizialmente nel creare Pinocchio.
Quello che a noi interessa mettere in luce in questa sede è la configurazione familiare che emerge dalla storia del burattino. Configurazione che è subito chiara. Per quanto il padre Geppetto e la madre fatina non si incontrino mai (qualcuno ha parlato di una famiglia di separati ante litteram[3]), sono due figure di riferimento fondamentali per Pinocchio, ben tratteggiate e con ruoli diversi.
Geppetto è un padre demiurgo. Crea dal legno informe Pinocchio. Lo fa principalmente per realizzare un suo desiderio, che non è nella fase iniziale desiderio di paternità. Geppetto vuole costruire
«un bel burattino di legno; ma un burattino meraviglioso, che sappia ballare, tirare di scherma e fare salti mortali. Con questo burattino voglio girare il mondo, per buscarmi un tozzo di pane e un bicchiere di vino»[4].
L’atto generativo, come sempre (anche nel Collodi autore), non è del tutto consapevole. Ha un po’ di quella incoscienza che caratterizza ogni concepimento. Ma poiché il legno di cui Pinocchio è fatto è magico ed è in attesa di realizzare il suo destino, il burattino sarà meraviglioso davvero. Un burattino vivo e dispettoso, capace di far salti mortali. Geppetto si pente subito di aver creato Pinocchio. L’atto generativo, tuttavia, una volta compiuto è ineludibile. La genitorialità di Geppetto è complessa, tormentata e sofferta. Il rapporto fra padre e figlio è caratterizzato dallo scarto e dallo scontro generazionale.
«Birba d’un figliuolo! Non sei ancora finito di fare, e già cominci a mancar di rispetto a tuo padre! Male, ragazzo mio, male!»[5]
«Me lo merito! -disse allora fra sé- Dovevo pensarci prima! Oramai è tardi!»[6]
«- Sciagurato figliuolo! E pensare che ho penato tanto a farlo un burattino per bene! Mi sta il dovere! Dovevo pensarci prima!..».[7]
Geppetto è un padre tradizionale, fin dall’inizio. Vuole imporre legge e ordine a Pinocchio, che vive, invece, nella dimensione del fantastico, dell’infanzia, del desiderio sfrenato. Il burattino ribelle non può che fuggire immediatamente da questo padre-legge. Infatti non appena Geppetto gli insegna a camminare, Pinocchio scappa correndo a più non posso (in realtà il burattino corre per tutto il racconto). A fermare la sua prima fuga dall’ordine paterno è un rappresentante della legge, il carabiniere, che prima lo restituisce al padre, ma poi, inspiegabilmente, arresta Geppetto. Per la prima volta Pinocchio è davvero libero. E torna a casa dove incontra il primo personaggio fantastico, il primo animale parlante, cioè il Grillo.
Durante l’incontro col Grillo parlante, che gli impartisce le sue sagge quanto noiose e indisponenti lezioni di vita (nella rappresentazione scenica, Bene nella veste di Pinocchio si tappa le orecchie mentre il grillo parla) e prima di ucciderlo con un martello di legno, Pinocchio dice chiaramente qual è il suo desiderio.
«-Vuoi che te lo dica? – replicò Pinocchio, che cominciava a perdere la pazienza – fra i mestieri del mondo non ce n’è che uno solo che veramente mi vada a genio.
-E questo mestiere sarebbe?
-Quello di mangiare, bere, dormire, divertirmi e fare dalla mattina alla sera la vita del vagabondo.»[8]
Geppetto, rilasciato dai carabinieri, torna a casa. Come un buon padre, fa sacrifici, nutre il figlio, gli impartisce lezioni di moralità e di buon comportamento, vende la giacca per comprargli l’Abbecedario. Ma Pinocchio nonostante i buoni propositi si distrae dal suo dovere, fa altro, fa quello che gli piace fare. Dal IX capitolo inizia il suo vagabondaggio nel mondo, inizia l’esplorazione del desiderio in perfetta solitudine. Il primo atto della sua esplorazione è il rifiuto della scuola e l’ingresso nel Gran Teatro dei Burattini.
All’interno del quadro di analisi lacaniano offerto da Massimo Recalcati in un recente lavoro[9] sul senso della paternità nell’epoca ipermoderna, Geppetto è un padre-legge che di fatto non ha l’autorità per educare il figlio (e dunque si risolve in un padre castrato). Pinocchio dal canto suo si muove all’interno della dialettica appartenenza-erranza, sviluppando in modo chiaro il giusto conflitto generazionale. Per accogliere la tradizione e l’eredità del padre Pinocchio deve negarlo, allontanarsene e seguire un desiderio che sia solo suo. Infatti Geppetto scompare dal IX capitolo in poi per ricomparire al XXXV, diventa un personaggio in absentia. Pinocchio entra cioè nella fase di erranza e di rifiuto del padre-legge, per darsi al desiderio sfrenato. Tuttavia il desiderio senza legge è quanto di più distruttivo possa esserci. Pinocchio non fa che passare da un guaio a un altro. Ed è certamente la fase più divertente delle sue avventure.
Nella sua erranza Pinocchio non è solo. O meglio, lo è fino al xv capitolo, quando incontra la morte, quando per la prima volta, cioè, vive una situazione estrema. La prima figura femminile umana che Pinocchio incontra è una figura incantata. E all’inizio è anche morta, o almeno dice di esserlo. Pinocchio, in fuga dagli assassini (come al solito corre), giunge davanti ad una tetra casina bianca. Bussa forsennatamente chiedendo aiuto. Si affaccia una bimba:
«Allora si affacciò alla finestra una bella bambina, coi capelli turchini e il viso bianco come un’immagine di cera, gli occhi chiusi e le mani incrociate sul petto, la quale, senza muovere punto le labbra, disse con una vocina che pareva venisse dall’altro mondo:
– In questa casa non c’è nessuno. Sono tutti morti.
-Aprimi almeno tu! – gridò Pinocchio piangendo e raccomandandosi.
– Sono morta anch’io.
-Morta? E allora cosa fai costì alla finestra?
-Aspetto la bara che venga a portarmi via.
Appena detto così, la Bambina disparve, e la finestra si richiuse senza far rumore.»[10]
La Bambina dai capelli turchini non lo aiuta. Gli fa toccare il fondo, da solo, gli fa sfiorare la morte. E quando sembra morto, come lei a sua volta diceva di essere, quando giungono cioè ad una situazione di parità assoluta (due bambini morti), la Bambina (che si scopre essere una buonissima fata), ha pietà di Pinocchio. Da qui inizia il rapporto fra i due. Inizialmente si tratta di un rapporto alla pari, da bambino a bambina. La fata vuole essere la sorellina di Pinocchio, ma lo instrada subito verso il controllo del desiderio attraverso la legge e attraverso il principio di realtà. Lo mette cioè di fronte alle reali conseguenze delle sue azioni (ad esempio la bara portata dai conigli neri quando Pinocchio non vuole prendere la medicina). Lo guida, cioè, all’acquisizione dell’ordine, cosa che Geppetto non era stato in grado di fare. Si configura all’inizio una famiglia senza madre e col padre assente.
Nonostante questa parvenza di famiglia, Pinocchio continua a fuggire e continua a cacciarsi in terribili guai. Insensatamente si fa ingannare ancora dal Gatto e dalla Volpe, viene messo in prigione dal giudice gorilla, è costretto a fare il cane da guardia. Poi nell’isola delle Api industriose (cap. XXV), ritrova la fata che non è più una bimba, ma una donna. È cresciuta, forse anche attraverso il rapporto con Pinocchio. Morta la bambina ( Pinocchio trova la sua lapide al posto della casa nel cap. XXIII) nasce la madre. Infatti la fata si propone a Pinocchio come madre, di cui lui ha un enorme bisogno e che accoglie entusiasticamente. Nonostante le buone intenzioni, Pinocchio fuggirà altre due volte dalla sua buona mamma, dovrà superare prove difficili, metamorfosi, pericoli. La madre con durezza, ma con grande dolcezza è sempre lì a guidarlo e a perdonarlo per i suoi errori, per le promesse tradite, per le fughe, per gli abbandoni. Gli consente cioè di attuare in modo sano il conflitto generazionale e l’erranza dal nucleo famigliare, che porterà Pinocchio al controllo di sé, alla rinuncia all’infanzia, a diventare un bambino vero.
Geppetto fallisce come padre, perché cerca di imporre a Pinocchio un’etica, una legge superiore che il figlio non sente interiormente, ma che viene dall’esterno. Una violenza che Pinocchio, spirito libero e ribelle, guidato dal desiderio sfrenato non può che rifiutare. Il lavoro della fatina madre è invece molto più accorto. Costruisce e rinsalda la morale interna di Pinocchio, che di base ha buon cuore[11], per farlo, solo dopo e autonomamente, approdare all’accettazione attiva dell’etica, della legge come ordine superiore ed esterno, che controlla e rende sano il desiderio. Lo guida, dunque, ad una interiorizzazione della legge.
Molte delle avventure di Pinocchio nascono perché lui cerca il padre. Quando finalmente lo ritroverà, nella pancia del pescecane, i ruoli saranno invertiti. Pinocchio lo salva, lo conduce a nuoto fino alla riva, trova una casetta e inizia a lavorare e a prendersi cura di lui. Pinocchio diventa la figura paterna. Diventa quel padre che Geppetto non è riuscito ad essere. Diventa, in qualche modo, migliore del padre. Senza la figura del padre, tuttavia, non è dato ordine, né interiorizzazione della legge. Pinocchio diventa un bimbo vero quando dentro di lui ha fuso morale ed etica. Quando si è talmente allontanato dal padre, pur cercandolo, da poter riaccogliere la sua eredità morale. La scelta di Pinocchio è veicolata dall’altissimo ruolo educativo della fatina-madre, ma è una scelta spontanea. Pinocchio decide autonomamente di lavorare, di cambiare vita. Non ci sono più promesse verbali, né buoni propositi. C’è solo la necessità, la responsabilizzazione di Pinocchio. Il padre rimane nei desideri e nelle parole di Pinocchio, per tutto il romanzo. Quando è in pericolo pensa al padre che non c’è, ma è la fatina madre a essere presente nelle forme più disparate. Essa è la figura certamente più solida del racconto e svolge in modo estremamente consapevole il ruolo che la donna ha nella famiglia italiana dell’Ottocento, cioè educare i figli. Questo ruolo assume una centralità e una vitalità nuova, forse proprio dal confronto con l’inadeguatezza del padre ad assumere responsabilmente un ruolo educativo. I padri dei romanzi italiani dell’Ottocento presi in analisi sono quasi sempre padri inadeguati, come anche Geppetto. Ma Geppetto è una figura che alla fine viene recuperata, nell’idea appunto che senza padre non è dato ordine. Nel Pinocchio si fonda e si delinea una nuova idea di famiglia, non tradizionale perché il modello operante, probabilmente, non era sentito come solido. Tuttavia una famiglia in cui ogni componente assolve il suo ruolo nella crescita di Pinocchio che giungerà ad introiettare l’etica del sacrificio e del lavoro, rinunciando volontariamente al mondo dell’infanzia ed entrando dolorosamente nel mondo degli adulti.
Pinocchio non esiste, vuole. Il bambino è onnipotente, vuole tutto, pesta i piedi, fa i capricci. Questo è il bambino: l’erotismo, l’amore, il senso indefinito, il tutto dell’infanzia. Dopo cominciano i guai, comincia l’imputridimento.
Con queste parole Carmelo Bene definiva, durante una breve intervista, la figura di Pinocchio, da lui amatissima e messa in scena diverse volte a partire dal 1961. Un Pinocchio raffinatissimo quello di Bene che portava il titolo: Pinocchio ovvero lo spettacolo della Provvidenza. Titolo straniante, invero, e che, a ben guardare, ci fornisce una conferma del ruolo forte della fatina, negato da Asor Rosa nel suo saggio su Pinocchio.[12] La Provvidenza nel Pinocchio di Bene non è la Provvidenza manzonianamente intesa, ma si incarna nella figura della fata, che secondo Bene, muove i fili della vicenda. Poi, dell’uscita dal mondo dell’infanzia di Pinocchio Bene coglie in modo radicale la malinconia che ogni lettore coglie alla fine della storia. L’inizio della vita vera di Pinocchio è anche la fine della fantasia.
Un’ultima riflessione sul rapporto col mondo del lavoro mi sembra doverosa. Si è molto parlato del rapporto fra Pinocchio e ‘Ntoni, il figlio ribelle, ma velleitario, de I Malavoglia. In Pinocchio approdare al lavoro, in ogni sua forma anche la più umile, vuol dire ritornare all’ordine, vuol dire accettare la legge nella sua ineludibilità, e vuol dire crescere, rinunciare all’infanzia e smettere di ridere e divertirsi. Ma è un prezzo necessario. Il conflitto generazionale in Pinocchio non veicola il conflitto sociale che si concretizza nel mondo del lavoro. Il riscatto non nasce da un miglioramento dello status lavorativo, da uno scatto sociale. Il riscatto in Pinocchio nasce dall’accettazione dell’ordine e dalla semplice accettazione del lavoro in ogni sua forma. In ‘Ntoni, invece i conflitti familiari sono metafora di conflitti sociali, lui vorrebbe essere di più attraverso l’avere di più; sente , in senso sociale, l’ingiustizia dello sfruttamento del lavoro. Ma non può realizzare lo scatto sociale, appunto perché il suo essere è velleitario. Pinocchio quello scatto lo realizza passando attraverso ciò da cui ‘Ntoni non voleva passare:
«Io non voglio vivere come un cane alla catena, come l’asino di compare Alfio, o come un mulo da bindolo, sempre a girar la ruota; io non voglio morir di fame in un cantuccio, o finire in bocca ai pescicani. »[13]
‘Ntoni cioè non vuole vivere nessuna delle esperienze umilianti vissute da Pinocchio. Ma non passare attraverso queste esperienze fa di ‘Ntoni un vinto, passare attraverso i lavori più umili e degradanti fa di Pinocchio un bimbo in carne e ossa, cioè un uomo. E determina, alla fine dei conti, anche un riscatto sociale: Pinocchio avrà una casetta nuova, pulita e ordinata, vestiti nuovi e puliti. La fatina, dopo un ultimo bacio e poche dolci parole, sparisce per sempre in un sogno; Geppetto ignaro di tutto (o forse fin troppo consapevole) continua a fare i suoi lavoretti e mostra a Pinocchio il burattino senza vita.
I libri da inserire nel nostro percorso (Le ultime lettere di Jacopo Ortis, I promessi sposi, Le confessioni di un italiano e Pinocchio. Le avventure di un burattino, I Malavoglia) puntano l’attenzione non sui padri, ma sui figli. La nuova Italia forse più che di una famiglia, la cui struttura appare sempre più complessa, ha bisogno del lavoro di tutti e di ruoli educativi forti che conducano le nuove generazioni a rendere solida la struttura sociale ed economica del paese. Pinocchio è certamente il meraviglioso, per quanto triste, punto d’approdo di un secolo di figli ribelli, spaesati e cercatori, e di padri inadeguati e perversi.
IL TESTO E’ L’INTERVENTO DI PATRIZIA D’ARRIGO (CATANIA) AL CONGRESSO A.D.I (ITALIANISTI) DEL SETT. 2011, A TORINO. ALTRI INTERVENTI, CHE SONO ANALISI DI ATTIVITA’ DI CLASSE, SONO REPERIBILI NEL SITO http://adisd.blogspot.com
[1] I. Calvino, Ma Collodi non esiste, in I. Calvino Saggi 1945-1985, a cura di M Berenghi, Mondadori, Milano 2007, tomo I, pp. 801
[2] G. Biagi, Il babbo di “Pinocchio”: Carlo Collodi, Passatisti, Firenze 1923, pp. 89-114
[3] M. Marazzi, Il destino di Pinocchio fra formazione e metamorfosi, in Leggere l’adolescenza, a cura di B. Peroni, Edizioni Unicopli, Milano 2008, p. 248
[4] C. Collodi, Le avventure di Pinocchio, Einaudi, Torino 2002, cap. II, p. 7
[5] C. Collodi, Le avventure di Pinocchio, cit., cap. III, p. 10
[6] C. Collodi, Le avventure di Pinocchio, cit, cap. III, p. 11
[7] C. Collodi, Le avventure di Pinocchio, cit, cap. III, p. 12
[8] C. Collodi, Le avventure di Pinocchio, cit, cap. IV, p. 14
[9] M. Recalcati, Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Raffaello Cortina Editore, Milano 2011
[10] C. Collodi, Le avventure di Pinocchio, cit, cap. XV, pp. 51-52
[11] «La sincerità del tuo dolore mi fece conoscere che tu avevi il cuore buono: e dai ragazzi buoni di cuore, anche se sono un po’ monelli e avvezzati male, c’è sempre da sperar qualcosa: ossia c’è sempre da sperare che rientrino sulla vera strada. Ecco perché sono venuta a cercarti fin qui. Io sarò la tua mamma.» in C. Collodi, Le avventure di Pinocchio, cit, cap. XXV, p. 96
[12] A. Asor Rosa, Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino di Carlo Collodi, in Letteratura italiana, Einaudi, Torino 1995, vol. 13, pp. 417-518
[13] G. Verga, I Malavoglia, a cura di R. Luperini, Mondadori, Milano 1998, p. 215