da la Repubblica, 02/09/2014
«Allora è giusto quello che ho sentito dire di te», gli disse una volta un vecchio professore di filosofia al termine di una conferenza. «Potresti spiegare Lacan anche ai sassi!». Sì, è vero, pensò allora Massimo Recalcati, mi piace ripetere, sminuzzare, ridurre fino all’osso. Pensieri lungamente corteggiati e fatti danzare dalla psicoanalisi alla letteratura, dalla dimensione più intima a quella pubblica, sciogliendo la noia dei tecnicismi nel vortice della vita.
Un rituale che si ripresenta integro nei libri e negli articoli dello studioso. Ma dietro questa pervicace ostinazione si nasconde un piccolo segreto, racchiuso in una nota a pie’ di pagina del nuovo saggio L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento. «Ero stato un bambino considerato idiota. Fui bocciato in seconda elementare perché giudicato incapace di apprendere. Quando cerco di insegnare qualcosa, è a lui che mi rivolgo».
Una “vite storta”, così era considerato Recalcati, «andavo lento e ora mi rimproverano di andare fin troppo veloce». Una vite che della stortura fa oggi un vanto, perché progredire nella conoscenza non significa raddrizzarsi piuttosto capire quale sia la strada. Inseguire la stella filante del desiderio e nutrirsi del suo riflesso di luce. Ma nel cielo perturbato dell’adolescenza quella stella qualcuno deve pur accenderla. È questo il destino del maestro. Ed è questo il cuore pulsante di un libro originale e bellissimo, che sin dalla titolazione include una parola inedita per la didattica. La parola “erotismo”. «Non esiste insegnamento senza amore. Ogni maestro che sia degno di questo nome sa muovere l’amore, è profondamente erotico, è in grado di generare quel trasporto che in psicoanalisi chiamiamo transfert». La scuola come “sentinella dell’erotismo del sapere”, della possibilità del risveglio. Il luogo che ti conduce altrove, «di fronte al nuovo, all’inaudito, all’imprevisto ». L’urto che ti costringe a pensare.
Un miracolo che può compiersi solo se non c’è sudditanza. Non vi può essere, insiste Recalcati. Ed è questo l’errore in cui precipita l’attuale scuola delle competenze, quella dell’efficienza e della prestazione, che riduce l’apprendimento a plagio, alla pura ripetizione, al calco acritico di un sapere costituito. La metafora dell’amore, spiega lo studioso, consiste nel trasformare chi ascolta in soggetto attivo, da “eromenos” in “erastes”, dallo statuto inerte dell’amato a quello partecipe dell’amante, di colui che cerca. In questo non c’è differenza tra professore e psicoanalista, «che non domanda nulla al paziente se non che diventi un analizzante». All’origine è il gesto scandaloso di Socrate nella scena di apertura del Simposio. Agatone lo vuole vicino a sé per essere “riempito” della sua sapienza, ma il maestro rifiuta il ruolo. Senza ricerca non ci può essere conoscenza. Il sapere si alimenta di vuoti, non di pieni. «E il sapere del maestro non è mai ciò che colma la mancanza quanto ciò che la preserva». Questo in sostanza dice il gesto spiazzante di Socrate. Ed è anche il gesto dirompente di Emilio Vedova, che per liberare gli allievi sporca la tela con un colpo di spazzolone: perché il bianco non è mai un vuoto, ma un carico fin troppo ingombrante di storia e tradizione. Gesti dimenticati, quelli di Socrate e di Vedova. Liquidati come vecchi attrezzi antieconomici, sia a scuola che all’università.
Ecco perché bisogna ripartire dall’ora di lezione. Solo l’incontro misterioso tra allievi e maestri può salvare un’istituzione che rischia il naufragio. Niente può sostituirlo: né computer né slide né pillole tecnologiche. Recalcati non ignora il carico di paradossi che grava sull’insegnante, figura sociale mortificata eppure oggi più che mai investita di attese e responsabilità. Se nella scuola che definisce “Edipo” – quella antica fondata sull’autorità del padre, gerarchica, assai temuta – era integro il patto tra genitori e insegnanti, nell’attuale scuola “Narciso” quel patto s’è frantumato, travolto da una nuova mortifera alleanza tra genitori e figli. Un’alleanza fondata sull’abolizione di ostacoli e limiti, sul “perché no?”, su una coincidenza di narcisismi paterni e filiari che non contempla frustrazioni e ancor meno fallimenti. È questa la solitudine dell’insegnante, «costretto a supplire a famiglie inesistenti o angosciate». Ed è anche la solitudine in cui versa la scuola che, se prima incarnava l’istituzione sorvegliante e punitiva, oggi si trova a essere l’unico baluardo di resistenza «all’iperedonismo acefalo», dunque uno strumento di liberazione piuttosto che di intruppamento ideologico. È un’isola di anticonformismo, ripete giustamente Recalcati, la sola che ponga dei limiti al godimento immediato. La legge della parola contro l’indisciplina del consumo sfrenato: di oggetti tecnologici, di alcol, di fumo, di droghe. E senza legge non c’è neppure desiderio.
Ma come si fa a conciliare norma ed Eros? Come si trasforma un libro in corpo erotico, cosa che permetterà all’allievo di «tradurre ogni corpo che incontra in un libro da leggere»? Qui l’autore non può che evocare gli insegnanti della sua vita. La maestra delle elementari che lo sottrasse dalla “malinconia ebete” del bambino negletto. L’incontro folgorante nel secondo anno dell’istituto agrario, nella periferia povera di Quarto Oggiaro: fu Giulia Terzaghi a rappresentare il taglio, “la ripartenza”, «non sarei più stato l’idiota della famiglia, lo studente storto che gettava i suoi genitori nell’angoscia». E poi i maestri dell’età adulta, nella facoltà di Filosofia di Milano: Mario dal Pra e Riccardo Massa, Carlo Sini e Franco Fergnani, con lui «Heidegger e Sartre diventavano incredibilmente vivi, pulsanti, straripavano dalle loro cornici stabilite per entrarci dentro».
Ogni lettore penserà ai suoi, di maestri, a quelli che hanno acceso le stelle filanti del desiderio. Ne ricorderà la voce, quel particolare timbro, le inflessioni, la particolarità. Perché è vero quel che scrive Recalcati, dei professori si può dimenticare la faccia o il nome ma non la voce. La voce che è corpo, «espressione materiale e spirituale del desiderio di insegnare ». Il desiderio di insegnare, ecco il filo comune. La voce lucida di Severino e quella metallica di Foucault. Il balbettio appassionato di Stoner quando si libera di una filologia morta. La voce del professore di Philip Roth che urla il suo trasporto per il sapere: «Per me non c’è nient’altro nella vita che valga l’ora di lezione ». Una voce che ci portiamo dentro anche inconsapevolmente, ed è per questo che è difficile accettarne la scomparsa. La notizia ti può cogliere di sorpresa, anche a distanza di anni. I maestri sono per sempre, in ciò che sei diventato, in quello che leggi e impari ogni giorno. «Sei una presenza che insiste a vivere in me», scrive Recalcati in una lettera d’amore alla professoressa Giulia. «Impossibile continuare senza di te, ma impossibile non continuare senza di te». Parole di Beckett che resistono. Il potente enigma dell’ora di lezione.