Non credo ci sia un’occasione più fruibile dell’autobus per imparare ad osservare.
Succede sempre qualcosa su cui vale la pena riflettere. La stessa ripetitività dei gesti, la ricorrenza delle situazioni, la multiforme “medietà” dei passeggeri sono teatro vivente di una città che si incontra nel più locale dei non luoghi, per dirla con Marc Augé.
Prova ne sia il fatto che in classe, per rendere l’idea di ciò che vuol dire cominciare a comprendere, partendo dalle situazioni vissute nelle quali siamo di volta in volta protagonisti e spettatori, il passaggio in autobus risulta sempre calzante. Anche i ragazzi che usano solo il motorino lo fanno dopo aver usato l’autobus.
Tutti abbiamo avuto storie simili, ma c’è una particolare autenticità in questi vissuti, scomponibile su vari piani, a partire dall’essere soggetto e oggetto di comportamento, di distrazione, di giudizio, di valutazione.
Così si comprende che la città cambia, lentamente e profondamente.
Come ci accorgiamo di aver sbagliato autobus, prima ancora che attraverso i finestrini, per le persone diverse da quelle che non conosciamo, ma incontriamo tutti i giorni alla fermata, a maggior ragione i volti, l’abbigliamento, gli sguardi di nuovi mondi sono un libro aperto da decifrare, un sfida all’alfabetizzazione sociale, un sfida difficile.
Mesi fa stavo leggendo i racconti di R. Carver; una mattina in autobus ho capito ciò che sentivo sfuggirmi delle sue pagine: il senso della condivisione. Ognuno dei passeggeri era una storia che poteva esser raccontata e in tale veste diventare comprensibile.
Per quest’attimo di leggerezza gli sono stata grata.