È con un certo fastidio, ormai, che accolgo le nuove parole che sostituiscono altre utilizzate, in precedenza, per indicare persone in situazione di disagio, emarginazione o difficoltà. Viene individuato il termine “politicamente corretto”, anzi “politically correct” (l’espressione inglese è quasi d’obbligo, forse per nobilitare l’operazione), e il gioco è fatto: come se, per magia, le parole avessero modificato la realtà. Disagio, emarginazione e difficoltà rimangono, ma, suvvia, l’importante è sentirsi con la coscienza a posto.
Non molto dissimile è l’uso di organizzare convegni su problemi che richiedono con urgenza interventi politici.
Le parole scorrono, divengono un fiume dalle acque sempre più limpide, che presenta un percorso piano e sicuro e diramazioni nuove.
Terminato il convegno, uno pensa, ingenuamente, che seguiranno azioni mirate e ponderate. A dire il vero quasi mai. Le parole hanno creato una realtà virtuale perfetta e quella deve bastare; l’altra, quella reale, può restare com’é.
(in margine a un convegno sulla violenza delle donne, mentre si dimezzano i fondi alla casa delle donne per non subire violenza)