Proseguono le cronache che ci invia la nostra assistente di lingua italiana ad Haydon School, Northwood Hills, Pinner, Middlesex, Londra nord-occidentale. E sono così vivide ed argute che si conquistano uno spazio autonomo (la prima puntata nel numero 39 delle Voci, insieme alle “sogliole”)
Prime nebbie. Mi riportano alla mente il natìo acquitrino padano. Stessa crudele umidità, che fa sudare i vetri dei bus come quelli delle finestre di casa. A scuola i termosifoni sono ancora spenti, ma sembra che questa impermeabile gioventù non avverta il freddo. Appendono le loro giacche
blu alle sedie, rimanendo in maniche di camicia, la cravatta immancabilmente annodata; ogni volta che avvista un nodo allentato, l’insegnante si affretta a riprendere l’alunno.
Sono i ragazzi a farmelo notare, Alex, Robert e Bianca: le cravatte non sono tutte uguali! Le strisce oblique che le ornano cambiano colore a seconda della casa di appartenenza. E le case portano i nomi degli shuttle: Endeavor, Pioneer, Challenger, Discovery, Voyager. Roba da far illividire lo stesso Harry Potter! Ovviamente l’appartenenza è determinata dal sangue, come da migliore tradizione inglese. Dimmi chi erano i tuoi fratelli, e ti dirò chi sei. Per fortuna queste barriere cadono all’interno delle classi, per riemergere solo una volta all’anno, in occasione della festa d’estate, in cui le case si sfidano all’ultimo sangue in competizioni sportive di varia natura. Peccato, mi perderò questo appuntamento; qui le scuole chiudono a fine luglio!
Le vacanze non mancano, tuttavia: l’anno è infatti disseminato di interruzioni più o meno brevi, la prima delle quali cade a fine ottobre, e coincide con il primo half term. Pause più brevi e frequenti sono considerate dagli specialisti positive per l’apprendimento, molto più dell’interminabile estate italiana, per noi meridionali europei ancora sacra e insostituibile. Anche il sistema educativo è molto differente dal nostro: scuole medie e superiori sono spesso riunite in istituti comprensori. La scuola dell’obbligo è suddivisa in quattro key-stages: il primo arriva fino ai 7 anni, il secondo fino agli 11, il terzo fino ai 14 (corrisponde alle nostre medie), l’ultimo ai 16.
Qui iniziano per i fanciulli le note dolenti: i temuti esami GCSE (General Certificates of Secondary Education), uno per ogni materia studiata. La bocciatura non esiste, l’anno non viene ripetuto, ma solo chi ottiene un numero sufficiente di GCSE può passare al livello successivo, ovvero la Sixth Form, che dura altri due anni, ed è finalizzata all’acquisizione dei certificati Advanced (A level), fondamentali per l’accesso nelle università. In alternativa, gli alunni possono iscriversi ai meno popolari colleges, che non richiedono doti o voti particolari. Descrizione tediosa ma necessaria, per capire un sistema così efficiente da un punto di vista strettamente produttivo; i figliuoli benedetti da Madre Natura, e desiderosi di fare incetta di GCSE, possono cominciare a raccoglierli con un anno di anticipo (al decimo anziché all’undicesimo). Succede così che l’Inghilterra arrivi a sfornare, in tempi relativamente brevi, i più giovani laureati d’Europa.
Lo stesso sistema permette però che glabri possessori di un prestigioso GCSE in italiano ignorino il nome di Dante Alighieri. E qui interviene l’assistente di lingua italiana, che coraggiosamente tenterà di arricchire non solo il vocabolario, ma anche il cuore e la mente di questi giovani, così abituati a cercare la perfetta efficienza (perché è quello che viene loro richiesto fin dalla nascita) da dimenticare che anche la curiosità può costituire una fonte di arricchimento personale.
L’half term ha lasciato dietro di sé una scia di malanni, e classi decimate dalla vera minaccia della scuola: il raffreddore. Più contagioso di qualsiasi febbre malarica, compare proprio quando fuori
impera il sole. E si crogiola nel clima tropicale delle aule, dove per contrastare il calore soffocante le finestre vengono tenute costantemente aperte, e talvolta accesi i ventilatori. Apoteosi dello
spreco. Il nuovo colore dei miei capelli si guadagna l’attenzione ammirata, infarcita di sorrisi e complimenti, di ragazzine che fino a dieci giorni fa non mi degnavano di uno sguardo. Ogni mezzo è lecito pur di guadagnarsi la loro simpatia e fiducia. E chissà quanto forte è l’attrazione esercitata dalla mia libertà su queste giovani, le cui uniche varianti concesse nell’abbigliamento sono la gonna nera al posto dei pantaloni neri, la borsa leopardata (apparentemente nuova moda londinese) in alternativa a quella scura, e alle quali è severamente vietato indossare qualsiasi tipo di gioielli, pena la detenzione.
Qui le regole non esistono solo pro-forma, ma vengono applicate alla lettera. Accesso ad Alcatraz garantito se avete orecchini pendenti, anche quando la superficie debordante dal lobo è
di soli 5 millimetri, e se la vostra uniforme non è indossata correttamente: camicia non infilata nei pantaloni, nodo della cravatta drammaticamente nascosto sotto alla felpa o alla sciarpa. La cella di
isolamento, un quadrato di unovirgolacinque-per-unovirgolacinquemetri, separato dal mondo esterno per mezzo di una parete di vetro che rende immediatamente identificabile lo sventurato di turno, è anche la meta finale del viaggio che attende chi viene ammonito in classe per più di
due volte. Un po’ come avviene per il calcio, con la differenza che si viene eliminati dopo il secondo cartellino giallo.
In questo mondo in cui non esiste la bocciatura, il comportamento è la chiave del successo. Un cartellino colorato recante la scritta “Good news for you” è la nota di merito più ambita, che viene talvolta consegnata alla fine dell’ora agli studenti più meritevoli. Un tick a penna a lato della motivazione: si è applicato con particolare impegno, ha svolto correttamente il lavoro assegnato, ecc. Un dubbio mi sorge spontaneo: dove andranno a finire questi variopinti foglietti volanti? Appesi come trofei alle pareti di bianche camerette, proprio come alcuni di essi adornano i cartelloni nelle classi?
Evanescente illusione di perfezione, che svanisce davanti all’inefficacia di cartelli come “Feed the bins-The floor is on a diet” (=dà da mangiare ai bidoni-il pavimento è a dieta). Non solo i corridoi e lo sconfinato prato all’esterno sono disseminati di cartacce, ma perfino la staffroom può vantare ampie superfici, orizzontali, verticali e oblique, tappezzate di tazze, buste, pallottole di carta e posate di plastica. E come biasimare i vari James, Sam, e la ribelle Tanya dai lunghi riccioli corvini, che non perdono il buonumore nemmeno dopo i ripetuti ammonimenti? Come resistere alla tenerezza del piccolo Lorenzo, che invece di ascoltare la prof. si mette a chiacchierare con me, chiedendomi se davvero sono italiana al cento-per-cento? Lui infatti lo è solo per metà, per parte di padre; mi mostra orgoglioso la facciata del quaderno sulla quale è scritto il suo nome italiano, inutile da solo a permettergli di distinguere un verbo al tempo presente da uno al passato. Dolcezze e amarezze che si intonano ai dorati colori dell’autunno britannico, indispensabili come un vero piatto di pasta e una tazzina di vero caffè italiano al termine della dura giornata di lavoro.