“Chi voglia rendersi conto del vero significato del comportamento di lotta deve però anche saper valutare l’importanza di un’altra condizione interna … È lo stato di pace e di tranquillità che corrisponde a ciò che chiamiamo ‘intimità’…
Gli animali superiori offrono esempi di un’intimità che dura per anni, anche per tutta la vita. Presso alcune specie di uccelli l’intimità della coppia non si perde neppure durante il comportamento migratorio.”
(A. Portmann)
Dunque, veniamo a sapere dallo zoologo Adolf Portmann (1897-1982) che quella dell’intimità è esperienza non esclusiva degli umani. E provando ad azzardare una risposta alla domanda di Gregory Bateson: “Quale struttura connette il granchio con l’aragosta, l’orchidea con la primula e tutti e quattro con me? E tutti e sei noi con l’ameba da una parte e con lo schizofrenico dall’altra?”, diremo che anche qui, nei sentimenti di intimità, siamo “connessi” con il mondo dei viventi (con gli animali superiori di sicuro, con l’ameba… mah!).
occasioni
Già nascendo troviamo predisposti per noi luoghi e occasioni di intimità, e anche quando, col tempo, così non sarà, quei luoghi li cercheremo da noi stessi. Predisposti luogo e tempo, e scelta all’occorrenza la persona giusta, porteremo alla luce quella parte dell’anima nascosta ai più, daremo voce a pensieri che resteranno solo nostri e di chi eleggiamo a confidenti… Lì, in uno stato non consueto di stretta prossimità con se stesso e con pochi altri, può darsi il caso che qualcuno si scopra incapace di reggerla, la prossimità, al punto di provarne sgomento.
C’è forse un’età, ci sono momenti della vita dove è più urgente il bisogno di circoscrivere il dominio della propria esperienza e di sospendere la compromissione col mondo esterno; un’età, insomma, dove lo spazio chiuso e protetto dell’esperienza dell’intimità – un bisogno primario – è il ‘pane’ quotidianamente cercato; e ci sono fasi della vita, lunghe o brevi, una età o un luogo del giorno, dove ogni restrizione di campo – la cura esclusiva di sé, il girare a vuoto o lo scavare, nostro o altrui, nelle minuzie (il perché e il come, il senso della vita, io e tu…) – ci trova insofferenti: impegnati e appagati come siamo dal mostrare la sola veste apparente di noi.
Nelle occasioni più felicemente riuscite, quando lo stato di intimità ci rende del tutto ignari di scorciatoie e furbizie, si liberano in noi senza alcuno sforzo né intento programmato frasi e gesti in tutto sinceri; e quelle frasi, quei gesti che altrove sarebbero fuori luogo – e farebbero la nostra rovina – sono invece lì opportuni, doverosi quasi. Così almeno ci sembra, quando l’intimità si accompagna a uno ‘stato di grazia’. Salvo a scoprire, poi, dissolta l’aura che avvolgeva lo stato di grazia e subentrato il disincanto della vita ordinaria, che sarebbe stato meglio esitare: nel mettere piede nella ‘zona sacra’ dei sentimenti nostri e altrui, abbiamo violato un tratto nascosto che andava taciuto e detto quindi una parola di troppo!
le relazioni e la misura
Portare alla coscienza il linguaggio delle emozioni, che è per larghi tratti inconsapevole, richiede infatti la virtù dell’esitazione. Eppure il linguaggio verbale pretende di mettere su di un piano e rendere lineare ciò che lineare non è, vale a dire il complicato gioco delle relazioni, che sono fatte di storie, di metafore, di pause impregnate di significati allusivi…
Come e da chi, allora, impariamo a fermare quella parola di troppo e a dirla invece lì dove quella parola non è di troppo ma andava detta? Una parola non è in sé – in quanto tale – inopportuna; lo diventa in un luogo, con quella certa persona…; in un diverso luogo, con un’altra persona, invece, è fonte di sviluppo: farà crescere un’amicizia nuova, un amore, ci farà scoprire aspetti nostri e altrui che senza quella parola non emergerebbero.
A differenza di quelle specie di uccelli per i quali restare intimamente in coppia durante la migrazione è comportamento non ‘scelto’ ma ‘programmato’ sin dalla nascita, noi umani nasciamo non del tutto ‘programmati’: linguaggio, comportamenti, tutto ciò che ci definisce come animali sociali dobbiamo apprenderlo. Dobbiamo apprendere a ‘misurare’ parole e azioni, a saper dire sì o no, a riconoscere la differenza tra cosa è giusto e cosa è sbagliato: in assoluto e in relazione ai contesti.
La riuscita di una relazione è fatta di molti dettagli, ed è il risultato della storia adattativa dei processi coevolutivi nei quali non c’è sempre e onnipresente la computazione puntuale e cosciente di tutte le variabili: come fa il gatto, che non computa uno dopo l’altro i passaggi attraverso cui calibrerà l’atto di balzare sul topo per afferrarlo; o come quell’addio alla stazione che nella sua essenzialità diceva dei sentimenti che lo accompagnavano, e che nel prefigurare l’augurio del successivo incontro non ha avuto bisogno di tante parole per dichiararlo.
È sorprendente come certe situazioni riescano perfette. Questo appare ancor più sorprendente se ci guardiamo attorno e consideriamo l’ineleganza di tante situazioni comunicative: quante parole di troppo e quante inadeguate invadono sgarbatamente lo spazio della nostra giornata. Sarà forse una caratteristica del mondo d’oggi il violare convenzioni e ‘protocolli’, non riconoscere né rispettare i contesti: qualcuno si indigna, molti nemmeno se ne accorgono.
raccontare
Invecchiando, le persone si inventano un passato felice da rimpiangere. Forse perché la memoria – che è selettiva – ci porta a valorizzare le sole cose che – isolate dal resto – erano le migliori. Sarà così anche per i nostri figli, quando diventeranno adulti. Questo selezionare i soli ricordi buoni, rivela forse una qualche necessità: che una qualche storia – depurata dei ricordi cattivi – ci sia maestra di vita. Allora, vera o non vera che sia l’immagine del passato che proiettiamo nel presente, quello che è indubbiamente vero è che noi cerchiamo dei correttivi alla luce della storia che abbiamo vissuto, la quale è vera non in quanto è accaduta proprio nei termini in cui la raccontiamo, ma è vera perché il presente ci appare manchevole di un tratto necessario che prima invece c’era: la riservatezza, il senso del pudore: una sorta di barriera protettiva a difesa dell’intimità.
In un tempo di quotidiani, televisi¬vi autodafè – la moda del raccontare in pubblico private disgrazie (una perdita della grazia quasi ostinatamente perseguita: perché?) – il correttivo sarà il tacere del tutto?
Quel bisogno di mettere allo scoperto la propria anima e i suoi segreti più inconfessabili, nel mentre esprime manifestamente una comunicazione ‘malata’, invoca anche il suo contrario: l’esigenza di una ritrovata, buona comunicazione, in contesti di ascolto protetti.
Allora, se il confessionale – con i suoi rituali e la sua accattivante coreografia, che è tutt’uno con la promessa della segretezza – non basta più, e se può essere sostituito da un luogo non sacramentato come quello che appare nei nostri schermi televisivi, resta pure la certezza che i luoghi laici della confessione devono sottostare anch’essi a proprie regole.
pubblici segreti
C’è un tempo (e un luogo) per il pubblico e un tempo (e un luogo) per il privato. Della violazione di questo confine tutti noi facciamo esperienza. Ci accade infatti di provare imbarazzo nei riguardi di chi, in uno spazio ‘non protetto’, rende manifeste questioni che regole convenzionali ci hanno abituato a ritenere private, quasi segrete. Capita, per esempio, che un uomo pubblico – un artista, uno scienziato, un politico – violi inaspettatamente convenzioni e protocolli e dichiari al mondo intero una sua personale faccenda (sono malato, sono gay…).
È prassi comune la violazione (per lo più innocente) delle cornici rituali: c’è chi ama appartarsi con l’amico in un luogo che imporrebbe una socialità allargata, c’è chi ostenta per strada sentimenti della sfera privata – confidenze, gesti d’amore e così via. Senza andare troppo lontano, per osservare il fenomeno basterà entrare in un’aula scolastica mentre si fa lezione: sfidando il pericolo che si venga scoperti, e che ciò che è nato segreto e doveva restare segreto diventi di dominio pubblico, ragazzi e ragazze continuano ancor oggi a mandarsi sottobanco i bigliettini (in aggiunta ai messaggi al telefonino), due si baciano nei corridoio della scuola; e sono tanti quelli che non si curano di nascondere i loro traffici, anzi sembrano ignari della nozione stessa di ‘segretezza’ – e dello stretto rapporto tra ‘pudore’ e ‘sacro’.
Può darsi che, oggi, l’incorrere in questo genere di ‘errore’ (si fa per dire) sia reso più facile dalla disponibilità di mezzi veloci per comunicare, a piccole e grandi distanze. Non por tempo in mezzo: dire, mostrare subito quello che il cuore (e la ragione) detta. E nel mentre sempre più i mass-media ci disabituano all’idea di segretezza – e sembra ormai rotto il vincolo naturale tra sessualità e intimità (eppure la sessualità è la forma primaria di intimità a due!) -, cresce nei giovani e nei meno giovani una idea di libertà svincolata dal suo ‘contenuto’, e che non ha altro limite che una momentanea contingenza: la indisponibilità del luogo dove rendere pubblica una questione privata.
tempi e distanze: l’intimità pensosa
Al confronto con l’oggi, in un passato nemmeno tanto lontano coltivare un rapporto d’amicizia o d’amore superando distanze anche brevi non era facile impresa e richiedeva un grande impegno. Le strade per comunicare un messaggio che doveva essere coperto da segretezza, pur se impervie, erano forse meglio tutelate. E la ‘durata’ della segretezza era pari ai lunghi ‘tempi morti’ che intercorrevano tra un messaggio e l’altro. Se c’era quindi un tempo maggiore per pensare, altrettanto e dolorosamente lunghi erano il tempo e la distanza che occorrevano a correggere un messaggio ‘sbagliato’: il messaggio successivo, scritto per rimediare al precedente – il quale esprimeva, facciamo il caso, un duro risentimento poi superato ma dichiarato intanto nella lettera -, poteva non essere tempestivo, con il rischio che, nel mentre il ‘pentimento’ era in viaggio, sul messaggio ‘sbagliato’ crescessero nel frattempo il pensiero e le decisioni dell’altro (la verità salvifica che giunge in punto di morte!).
Di contro, nei tempi vuoti dell’attesa e del silenzio dell’altro, poteva risultare più facile, in quanto indotto dalle contingenze, il raccoglimento in se stessi. E forse anche allora, come sempre accade, non era scontato che ‘tutto finisse in tragedia’: a causa di una lettera che arriva tardi o di una lettera smarrita, qualcuno riusciva a comporre la vita in una nuova diversa inaspettata felicità, oppure in un diverso travaglio – che pure vita è.
Non che oggi questo non avvenga. Oggi però è più probabile che la solitudine del raccoglimento – quali che ne siano le cause – venga vissuta come esperienza colpevolmente ‘cercata’ e che può essere ‘evitata’: una scelta, per l’appunto, per giunta sbagliata! – non sono forse innumerevoli le offerte di vita sociale e di svago?! (un bambino ‘pensoso’ preoccupa genitori e insegnanti: perché se ne sta appartato?, perché non si dà da fare come gli altri bambini?).
ascoltare
“Fate piano, non lo disturbate, sta pensando”, dice Dersu Uzala (nel film omonimo di Kurosawa) ai soldati a cui sta facendo da guida nel fitto del bosco siberiano. Hanno incontrato un vecchio che medita solitario davanti alla sua capanna: “È qui da trent’anni, da che è morta sua moglie – spiega Dersu Uzala ai soldati – . Fate silenzio, lui sta pensando”.
Un caso, questo, estremo, che resta tale in qualsiasi latitudine, per qualsiasi essere umano, fatta eccezione per i religiosi votati alla preghiera, per i mistici, alla ricerca perenne di se stessi e di una qualche ‘verità più vera’, o presi dalla volontà di testimoniare una tacita forma di vita che si opponga al fragore del tempo.
Noi, persone ‘normali’, che punteggiamo diversamente la nostra giornata e la nostra esistenza, qualche volta lasciamo insoddisfatto il bisogno di intimità, altre volte sappiamo e vogliamo accogliere – o costruirla noi stessi – la cornice rituale entro cui farlo emergere.
Viene ancora in mente la scuola, il ricordo di quando eravamo studenti, il giorno del compito in classe, il tema d’italiano per esempio, quando ciascuno è solo davanti a un foglio di carta bianco da riempire (“da dove comincio?”). Isolarsi, dare il meglio di sé, giocarsi tutto in quelle due ore… È lì che da giovani si impara – o si rafforza – il piacere di raccogliersi per cercare la parola che stenta a venire: una battaglia che sarebbe persa se non fosse che il silenzio intorno, il raccoglimento degli altri (e la paura di un brutto voto) non venissero in soccorso a disincagliare quei pensieri – vestiti di nome, verbo, aggettivi – sepolti da qualche parte nel groviglio delle cose che sappiamo senza sapere di saperle; le parole ‘difficili’ che riusciamo ad adattare a piegare dentro la frase – anche in un gioco di ambiguità, se ci riesce – e come se le parole (solo esse, non ‘io’) sapessero sorprendentemente la via per sortire.
Anche adesso, non solo quando eravamo ragazzi, per scrivere, per studiare – da soli o con altri – ce ne stiamo appartati.
Capita, invece, che in una casa, in qualsiasi luogo dove si è presi da un compito che imporrebbe concentrazione e silenzio, ci siano troppe voci che chiedono di essere ascoltate – e in aggiunta il brusio ininterrotto della televisione, la musica di un CD… Alle volte, però, dopo che faticosamente l’abbiamo ottenuto, siamo noi stessi a non reggere il peso del silenzio e ad ammettere un sottofondo di voci che stemperino l’eccessiva nostra intimità con l’oggetto del nostro momentaneo interesse.
Ma c’è chi in casa non ha proprio nessuno che gli parli, e legge o studia come per rimediare al vuoto di presenze, a cui pure ha fatto l’abitudine; ed è allora che un libro – la voce muta di uno scrittore – assumerà per lui il ruolo delle voci che altrove (o in altro tempo) sono portate da persone in carne e ossa.
E allora queste ‘persone vere’ le va a cercare: va ad ascoltare uno che parla in pubblico.
il miracolo della scuola
Non soltanto ai solitari per vocazione o necessità, a tutti noi – quali che siano le personali abitudini – accade di starcene muti e immobili nella platea, stretti nell’ascolto di un oratore che espone ad altri un suo originale pensiero – o più semplicemente fa il resoconto di ciò che sa a chi non lo sa. E quella voce che si impone nel silenzio delle altre, deve avere molto da dire, deve meritarsi l’imposizione del silenzio intorno a sé con una qualche autorevolezza: sua personale e delle cose che va dicendo.
Accade spesso che questa autorevolezza non abbia un solido fondamento; eppure pretende di imporsi, com’è quando lo stare su un piedistallo – la pedana che tiene sollevata la cattedra – serve unicamente a marcare una gerarchia. Ma se quella persona è un insegnante e fa della sua posizione ‘elevata’ un uso accorto, così da farla vivere ai suoi allievi come eccezione, farà scoprire loro un peculiare modo di relazionarsi tra persone, dove c’è chi trasmette racconti di ‘storie’ perché altri le condividano.
Le nostre biblioteche sono strapiene di Storie (della Storia in senso stretto, e anche della scienza, delle arti, della tecnica e così via). A tratti, da questo accumulo di memoria – peculiare delle culture scritte – ci sentiamo oppressi, e tuttavia quei tanti ‘saperi’ che il tempo ci ha consegnato è necessario che vengano trasmessi. Ogni insegnante ne porta frammenti diversi. Il miracolo della scuola è che un certo anno, un certo giorno, in una certa classe dove si incontrano quotidianamente un pugno di ragazzi, questi, stando insieme, imparano e si portano dentro (senza che ne sappiano per adesso il perché) un identico frammento di storia.
imparare a studiare
L’insegnante ‘moderno’ preferisce scendere dalla cattedra. Sbaglierebbe se non vi salisse mai. Perché è in quella peculiare coreografia – una posizione gerarchica manifesta e imposta d’autorità – che lo stare raccolti e in silenzio può diventare per gli allievi l’esperienza necessaria a che imparino a crearsi per sé (da soli, a casa) un clima analogo a quello, e a scoprire quindi cosa vuol dire per davvero studiare.
Noi adulti istruiti lo sappiamo bene: per studiare è necessaria una cornice di intimità. Perché un figlio trovi la giusta concentrazione predisponiamo le condizioni materiali: un tavolo, una comoda sedia, una luce ben orientata…, e noi ce ne stiamo in disparte, in silenziosa attesa, chissà, della richiesta di aiuto. (Spesso accanto a un ragazzo che studia non c’è nessuno. E chissà che la presenza di un familiare non sia davvero necessaria.)
il gioco del silenzio
Ogni cosa in natura è definita da soglie: al di sotto e al di sopra di una certa soglia ogni cosa potrebbe essere dannosa – la crisi ecologica ce l’ha insegnato – : e così, una cura dei piccoli che impedisca la loro emancipazione, una libertà che ignora confini, una ritualità che da contesto rassicurante diventi una trappola…, e anche una scuola che nel ‘mettere in riga’ l’universo escluda del tutto l’arte di contemplarlo.
Un maestro può allora insegnare a dare risposta alla domanda niente affatto banale: perché mai dobbiamo parlare delle cose che già esistono?
“Sempre sia il mio cuore aperto ai piccoli / uccelli che sono il segreto del vivere / qualsiasi loro canto è meglio del sapere…”, dicono i versi di una poesia di Cummings.
Dalla finestra dell’aula dove quel certo maestro lavora si vede il treno della metropolitana passare di continuo, la strada, le macchine parcheggiate… Si vedono anche, e quasi attaccati alla finestra, i platani della piazza antistante la scuola. A fine giornata, se hanno guadagnato tempo e mancano cinque minuti al suono della campanella, il maestro propone il gioco del silenzio. Tra il rumore della fermata del treno alla stazione vicina, la voce dei bidelli che stanno pulendo l’aula accanto, lo sbattere di una porta e tutto il resto, in un raro momento di quiete possono udire nitido il canto rauco di una cornacchia; se sono fortunati, il battere delle ali alla ripresa del volo.
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note
La citazione iniziale è tratta da Adolf Portmann, Le forme viventi, Milano, Adelphi, 1969, pp.143 e 146.
Per la frase di Bateson, cfr. Mente e natura, Milano, Adelphi, 1984, p. 21
I versi conclusivi sono di e. e. cummings, New Poems (1938), in Poesie, Torino, Einaudi 1974, p. 167 (con il nome in minuscolo, come lo stesso poeta voleva fosse scritto).
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Questo testo è dedicato alla memoria di Giuseppe Pontremoli