Continuano le cronache di Elena, schegge di vita scolastica tra il serie e l’ironico.
Sono arrivati i ragazzi italiani dello scambio, da Sesto Fiorentino. Soggiorno inaugurato da uno scambio di bagagli: un entusiasta tredicenne si è appropriato della valigia di altri turisti che viaggiavano sullo stesso aereo. I professori lo vengono a sapere troppo tardi, lui è già partito con il suo compagno inglese, entrambi sono irrintracciabili. Innumerevoli telefonate condiscono il tè e biscotti di un pomeriggio sacrificato all’intrattenimento dei docenti toscani, estasiati di fronte all’efficienza della “nostra” scuola, che si può permettere addirittura due assistenti di lingua italiana! Ignorano quanto l’indeterminatezza del nostro ruolo rischi, talvolta, di condurlo all’inefficacia.
Un professore è come l’autista di un autobus, che può scegliere di guidare il suo mezzo alla velocità che preferisce, fingendo di non vedere dallo specchietto quello che avviene sul veicolo, oppure può decidere di rallentare, per permettere a tutti i passeggeri di sedersi, e ripartire solo quando è sicuro che nessuno si farà male. E’ una libertà che comporta grosse responsabilità, poiché ogni decisione è determinante in modo diverso per ciascuno dei viaggiatori. Noi assistenti non abbiamo questo potere, possiamo solo aggirarci tra i sedili e allacciare qualche cintura, rassicurare e consigliare le persone che ci vengono indicate. L’assenza di un compito preciso rende precaria la nostra situazione, ci fa guardare con avidità verso il volante, ma, nello stesso tempo, ci consente il privilegio di muoverci tra i sedili, e di osservare tutto con occhi partecipi sia dell’una che dell’altra posizione.
E così da una parte è difficile trattenere le risate di fronte alle battute dei ragazzi, quelle che suscitano le ire funeste dei professori, e dall’altra ci si rende conto di quanto arduo sia rimanere imparziali di fronte alla classe, nascondere simpatie e antipatie. Tanto più che alcune di esse sono razionalmente spiegabili; ci sono ragazzi che ti salutano lungo i corridoi o in mensa, altri che fingono di non vederti, alcuni che ti sorridono, altri che ti guardano sospettosi, ci sono quelli che si impegnano e mostrano entusiasmo, altri che passano le lezioni a chiacchierare o truccarsi, e ad ogni tua domanda rispondono con un “Non lo so“ sbiascicato, ovviamente in inglese. Ma non puoi spiegarti il motivo per cui ti ricordi di certi nomi e non di altri, o del perché hai raccontato al silenzioso David il trucco che usavi al liceo per imparare ad usare i tempi verbali, ma non hai fatto lo stesso con Matthew, altrettanto brillante e diligente.
Ed è arrivato anche il momento dei mock exams, simulazione di quelli effettivi, che avranno luogo l’estate prossima. Durano tre giorni, durante i quali l’aula di preparazione si trasforma in una scatola di sardine, o in un forno a microonde. Saltelliamo da uno studente all’altro, offrendo il nostro aiuto come se stessimo svendendo verdure al mercato; alcuni accettano con sorrisi grati, altri preferiscono accartocciarsi sui loro libri o ripassare con i coetanei. Un rifiuto, questo, che mi ferisce, nonostante sia consapevole che per alcune persone ripetere la lezione e sentirsi correggere costituisce un motivo di insicurezza in più. Altri, invece, acquistano fiducia e mi concedono i loro sorrisi; chissà che questi momenti condivisi non ci stiano avvicinando. Alcuni tornano il giorno dopo per l’esame di francese, come Alex, che mi racconta soddisfatta di come sia riuscita a ricordarsi di alcune parole che le avevo insegnato poco prima che arrivasse il suo turno. David il timido ha un occhio pesto; quando gli chiedo cosa sia successo, mi risponde che è rimasto coinvolto in una rissa davanti al supermercato. Alla mia faccia incredula e preoccupata scoppia a ridere, e mi racconta che in realtà si tratta di un’infezione. Lui e Peter sono bravissimi, sono sicura che prenderanno il massimo dei voti. Cerco di trasmettere loro questa mia sensazione, e ne sembrano grati. Daniel non mi aveva chiesto nulla, ma quando mi avvicino chiedendogli se vuole essere testato, accetta con un sorriso di gratitudine che mi scioglie il cuore; dopo sole tre domande, è già il suo turno, e io rimpiango di non essere andata da lui prima. Scoprirò con gioia un’ora dopo che è riuscito ad avere A, il voto più alto.
La scuola sembra vuota, dopo gli esami. Mi mancano i ragazzi dell’anno 11, mi dispiace non avere avuto l’opportunità di salutarli.
Durante le lezioni, i più piccoli sembrano animati da energie infinite; che provengano dal cioccolato? O forse dal Christmas pudding? Alcuni sconfinano nella maleducazione e nell’arroganza, come Laura, che mi fa passare il peggior quarto d’ora degli ultimi tre mesi. Devo ancora riuscire ad accettare il fatto che è impossibile farsi amare da tutti.
Infine, quello che più temevo è successo: il termosifone dell’aula di Chiara (insegnante madrelingua di italiano) si è rotto, e acque putride hanno invaso l’aula, imbibendo la fatidica moquette. Evacuazione generale; stanza sigillata per un giorno, nell’attesa di qualche intervento provvidenziale, che infine arriva, ma sembra rivelarsi non molto efficace, dal momento che anche i giorni seguenti l’aula e il corridoio sono impregnati dei miasmi di novelle paludi pontine. Speriamo che Babbo Natale porti in regalo al dipartimento di lingue un nuovo tappeto per l’aula L08!