D. Demetrio, La vita schiva. Il sentimento e le virtù delle timidezza, Milano Raffaello, Cortina Editore, 2007, pp. 270, € 14,00
“Questo libro si rivolge […] a una minoranza ben risoluta che persegua la solitudine come antidoto ai molti mali presenti, eventuali, prima o poi inevitabili. La proposta, va subito chiarito, si rivela più credibile se la raccoglie chi possa ammettere di avere o di aver avuto una vita non del tutto infelice o che abbia già saputo fare del dolore un’occasione di rinascita. Vivendola in piena consapevolezza e come esperienza di elevazione umana oltre che intellettuale o poetica. Ed è tale la vita che, per affetto ricevuto e restituito, ci consenta di allontanarci senza strazio eccessivo, rassicurati da un’interna ricchezza pur a un certo punto perduta. Rappresentata oltre che da una disposizione naturale alla riservatezza e a un bisogno fisico di starsene da soli, dalla attitudine ad aiutarsi attraverso un’intensa attività introspettiva. In altre parole, grazie alla fedeltà verso un pensiero riflessivo capace di oltrepassare le banalità. Per dedicarsi alla propria maturazione, a una incessante conversazione con gli eventi e le circostanze esistenziali che ci ripropongono interrogativi insolubili. Ma per questo capaci di scuotere la nostra pigrizia, di ostacolare l’assuefazione emotiva, l’acquiescenza intellettuale.” (pp. 22-23)
Queste le parole con le quali Duccio Demetrio chiarisce i destinatari e l’impianto concettuale della sua opera.
Così come rivela il suo modo d’intendere la filosofia, che sfugge da pratiche accademiche e diventa esercizio di pensiero sulla quotidianità dell’esistere.
Proprio in questo proporsi come percorso di riflessione personale questo libro rappresenta la naturale continuazione del precedente Filosofia del camminare.
Senza dubbio un pensiero controcorrente perché si tratta di una presa di coscienza delle “ virtù della timidezza” e del valore di una “vita schiva”, che non significa vivere in una beata solitudine, lontani dal mondo e dai suoi rumori, ma “imparare a prenderne le distanze (proverbiale attitudine dei timidi) proprio nei momenti di maggiore pienezza dell’emozione di vivere insieme ad altri”. ( p. 24) E non è neppure rifiuto degli altri, anzi possibilità “di riconquistare una possibilità di convivenza, seppur instabile, come tutto, tra il diritto a dire onestamente “questo sono io” e il resto del mondo”. ( p. 25)
Pratica difficile e, forse, come dichiara l’autore per pochi, visto che la timidezza è stata considerata, ed ancora lo è, come una carenza, un’incapacità di vivere, se non come una vera e propria malattia.
“La morale popolare e più dotta, il pregiudizio e la diffidenza che insorge ancora verso il più debole, il più fragile e l’imbelle – nonostante millenni di lezione cristiana – ha dietro di sé lasciato una miriade di infelici messi alla berlina, che pure in non minuscola parte sono stati donne e uomini di genio.” ( p.94)
Tuttavia, i timidi che coltivano una solitudine meditativa e riflessiva possono realizzare una vita interiore piena e significativa.
Ecco, allora, che questo libro vuole essere, “un’antologia di meditazioni, di immagini, di impressioni, di ricordi evocati da queste pagine. Per analizzare quanto in noi conti o possa tornare a contare il coraggio della solitudine e quanto la timidezza – ritrovata anche nella nostra storia – possa costituire non più uno scomodo e indecoroso fardello, piuttosto una imponderabile virtù.” ( p. 28)