Il racconto, se la vostra predilezione va a questo tipo di composizione letteraria, avete a disposizione varie e diverse ragioni per confermare la vostra preferenza.
“… La mia anima è piena di pigrizia e del sentimento della libertà.
È il sangue che ribolle all’avvicinarsi della primavera. E tuttavia sono al lavoro. Preparo il materiale per il mio terzo libro e cancello senza misericordia.
È strano, adesso ho la mania della brevità; qualunque cosa legga, mia o di altri, nulla mi sembra abbastanza breve.” (1)
E’ indubbiamente curiosa questa considerazione di Anton Cechov (2) e può suggerire qualche nota in proposito.
La memoria scolastica ha lasciato in noi tracce di molti racconti, che, in verità, scopriamo essere ricorrenti nelle antologie e costituiscono un piacevole patrimonio di reminiscenze comuni; non sempre tuttavia è rimasto il gusto di leggerli.
Sulle preferenze o meno di questa “composizione letteraria… definita da un tipo di argomento dichiaratamente particolare o episodico” (3) si sono spesi mille pareri e addotte altrettante motivazioni; tra queste è apparsa su Il Corriere della sera, il 6 febbraio 2008, quella a firma di Raffaele La Capria, dal titolo: “Perché in un racconto di poche righe si può scrivere più che in un romanzo”.
“Si dice che gli editori non amino pubblicare i libri di racconti perché secondo loro i racconti non si vendono bene, mentre i romanzi sì. A me pare che questo non corrisponda a verità e che tutto dipenda dal fatto che scrivere un bel libro di racconti è forse meno frequente che scrivere un bel romanzo. Credo anche che i racconti siano, e non abbiano mai cessato di essere, il fulcro della narrativa. E si leggono inoltre in un tempo più breve. Questo della brevità è un tema su cui ci si potrebbe soffermare per un momento perché mi ricorda quello che in modo provocatorio disse Borges in un’ intervista. Disse: «I romanzi sono organismi troppo grossi, gonfi di cose troppo pesanti e troppo inutili. La forma letteraria perfetta può essere soltanto il racconto, che permette di concentrarsi direttamente sull’ essenziale, come fa la poesia…». Anche se dopo, in un’ altra intervista, Borges si corresse e riconobbe che la sua era stata una boutade, tuttavia in quella provocazione era implicito un sentimento che oggi molto spesso affiora nell’ animo di uno scrittore, il sentimento che ormai tutti i romanzi siano stati scritti e che forse è inutile rifarli perché ogni trama ne vale un’ altra e ogni fatto somiglia a un «fatto diverso» che la televisione ogni giorno ci propina. E forse per questo si preferisce trovare un sostegno esterno nel poliziesco, nel giallo, nel giudiziario, il cui schema è protettivo perché sin dall’ inizio stabilisce le regole del gioco senza togliere al giocatore nulla della bravura con cui lo conduce. Calvino aveva scritto negli stessi anni di Borges qualcosa a proposito di un capovolgimento della sua visione del mondo, qualcosa che Pietro Citati descriveva così: «Il mondo che fino ad allora gli si offriva come qualcosa di continuo gli si presentò all’ improvviso come spezzato in frammenti isolati». Questo «stato frammentario» descritto da Citati non riguardava soltanto Calvino, era una condizione del mondo contemporaneo, un mondo in cui sono finite le grandi cause unificanti su cui si appoggiava il grande romanzo, sicché oggi che tutto è come disperso anche il grande romanzo deve accontentarsi di realtà più piccole, «minori» per così dire, o più circoscritte. Non so fino a che punto questa mia analisi sia arbitraria, ma io non sto facendo critica letteraria, sto raccontando le mie impressioni di scrittore, in altri termini sto facendo autobiografia. E poiché sto parlando della difficoltà di fare romanzo, io suppongo che in un’ epoca come la nostra così fondata sulla velocità della comunicazione, i romanzi «lenti» come quelli tanto amati di Proust o di Musil abbiano ceduto il passo a un ritmo diverso annunciato sin dagli anni ‘ 30 dalla scrittura «veloce» dei racconti di Hemingway, con quel dialogo sincopato sul tempo della musica di allora che tanto ci piacque. (4)
Da lettrice, io amo leggere racconti, non tanto per sintonia con il tempo sincopato di questo presente, tema sul quale sarebbe interessante dilungarsi, quanto per ragioni minute, più personali:
Solitamente il volume è piccolo, si tiene bene in mano anche prima di addormentarsi, e sta dentro ogni borsa o in tasca, per tutti i momenti della giornata.
Il titolo difficilmente rivela; dice, ma quel che già dalle prime righe inquieta è tenuto segreto.
Il racconto è – per così dire – assoluto, non lascia spazio a tentennamenti. Come nella vita di tutti i giorni la vena umoristica si intreccia alla rassegnazione, l’ironia al dramma.
“Leggenda vuole che fu una scommessa a portare Ernest Hemingway a dimostrare che sì, è possibile [scrivere un romanzo in 6 parole].
La frase da lui coniata – Vendesi: scarpine per neonato, mai indossate (For sale: baby shoes, never worn, l’originale) nella letteratura anglosassone è rimasta storica, un capolavoro di pathos e brevità….” (5)
Il racconto non ha dunque tempo per tergiversare, deve essere immediato, dare tutto subito.
Vicenda, personaggi, ambiente, atmosfera sono presto in scena e non possono fallire. Ovvero se lo fanno il racconto è brutto o falso o presuntuoso o vuoto. E capita.
Ma quando il racconto è intenso, misurato, scritto con lucidità, allora sfoglio le pagine che mancano alla fine e mi chiedo come farà a starci dentro tutta questa storia?
Devo rallentare, torno indietro per rivedere i passi più intensi e poi riprendo a leggere. Sto centellinando come fosse un buon vino. Il testo non va trangugiato come una bibita annacquata,
Il tempo del lettura è dettato dal racconto, occorre assecondarne il ritmo, fermarsi, avanzare e l’ultima pagina è percorsa tutta d’un fiato, come gli ultimi passi in cima alla salita.
Resta il piacere del viaggio, mentre si osserva con un solo sguardo la storia, come un’istantanea.
Così il racconto, o lo metto in disparte o non me ne separo più. Qualche esempio?
“Due vecchi” di Silvio D’Arzo
“La raccolta di silenzi del dottor Murke” di Heinrich Boll
“Come mosche d’autunno” di Irène Némirovsky
“Dopo” di Edith Warton
“Il giunco mormorante” di Nina Berberova
“Il mio Natale in Galles” di Dylan Thomas
“Il compagno segreto” di Joseph Conrad……………..
Un’amica che non ama leggere racconti, preferisce i romanzi, dopo le prime valutazioni sulla complessità e compiutezza di questi ultimi, ha sintetizzato efficacemente:
“Insomma è come attraversare la città dovendo salire e scendere da 10 autobus, invece di usarne uno solo.”
Decisamente plausibile.
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Note
1 )Anton Cechov, Lettera a Aleksej Suvorin, 1889
2) “…il maggiore scrittore di racconti di tutti tempi..” in G.Cherchi, Scompartimento per lettori e taciturni, Feltrinelli, 1997, p.99
3) Devoto Oli, Dizionario della Lingua italiana, Le Monnier
4) Per la lettura completa dell’articolo vedasi http://archiviostorico.corriere.it/2008/febbraio/06/Elogio_della_brevita_alla_Hemingway_co_9_080206021.shtml
5) da Si può scrivere un romanzo in 6 parole di Paola De Carolis, Il Corriere della sera