D. Hari con M. McKenna e D. Butke, Il traduttore del silenzio, trad. di A. Carena, Casale Monferrato (AL), Piemme, 2008, pp. 218, € 14,50
Il traduttore del silenzio è un libro molto bello, anche se parlare di bellezza può apparire contraddittorio quando la lettura di ogni pagina si accompagna all’orrore per quello che vi viene narrato.
Daoud Hari, nato nel Darfur, una regione del Sudan, racconta attraverso la sua storia e quella di altri testimoni il genocidio che in questa terra viene compiuto nei confronti del suo popolo. Dal Ciad, dove viveva in un campo profughi, ha accompagnato, come guida ed interprete, decine volte reporter e inviati di organizzazioni internazionali a scoprire cosa accadeva nel Darfur. La sua è sta una scelta precisa di farsi “traduttore del silenzio”. Di portare al di là del silenzio più persone che poteva per far sentire chi, per il mondo, non ha voce.
Anche questo libro è un modo di tradurre il silenzio. Il lettore, definito “amico mio” viene condotto dalla scrittura di Hari, che gli si rivolge confidenzialmente, in un viaggio duro, a cominciare da questa immagine che, per me, ha prefigurato ciò che avrei incontrato dopo. “Le donne, che di norma portavano abiti di colori vivaci o le vesti bianche del lutto, ora erano tutte vestite di marrone scuro, per essere meno visibili nel deserto. Secondo la tradizione, si erano versate della sabbia sui capelli per commemorare i morti, e cominciavano a somigliare alla terra stessa. Avevano vestito i bambini con gli abiti più scuri che erano riuscite a trovare. Fatta eccezione per qualche uccello morto, il villaggio aveva perso tutto il suo colore.” ( p. 51)
Allora, anche tu che leggi e che magari, prima avevi saputo, prestandovi scarsa attenzione, qualcosa su quello che stava accadendo nel Darfur, dimenticandone subito dopo, senti il peso e quasi la vergogna per quel silenzio.
Sì, questo libro non si può definire che in termini di bellezza. “È una storia dura, ma vi troverai cose che ti sorprenderanno e ti renderanno felice di aver camminato insieme a me.” (p. 8)