Non credo che un’idea di scuola si difenda costruendo barricate sull’esistente, neppure se una di queste è un referendum contro la legge appena approvata. È una difesa fragilissima destinata a sfaldarsi, senza quasi bisogno di attacchi.
Sì, è un’idea per la quale bisogna lottare, perché nella normativa che si è riversata come grandine sulla scuola, e che è destinata a riproporsi, serpeggia una visione diversa, contrapposta. É quanto è espresso nelle parole di Piero Calamandrei, riproposte un po’ dovunque. Ma non basta, neppure, far circolare questo documento e ripetere le sue parole come fossero un mantra.
Occorre, invece, questa idea, cercare di renderla un percorso concreto, prendere fra le mani i problemi dei quali la nostra scuola soffre, e cominciare, finalmente, a discuterne in maniera pubblica, mettendo a confronto opinioni ed esperienze diverse, per individuare soluzioni, senza stancarsi, per renderle il più possibile condivisibili e condivise, soluzioni che facciano queste, sì, barriera robusta perché innovativa.
Mi vengono in mente, così, senza pretesa di organicità e di completezza, alcune brevi note.
Di fronte al maestro unico con contorno di o tre carotine perché non mettere in campo una serie riflessione per individuare, ad esempio, modalità organizzative in cui si concilino la complessità conoscitiva e di relazioni con la necessità di unità di approccio educativo e di non frammentarietà, che sono i rischi del modulo, come gli insegnanti stessi rilevano.
E che dire dell’inserimento degli alunni stranieri, la proposta delle classi ponte, o comunque si vogliano chiamare, ha la stessa caratteristica del comportamento di Giulia, tre anni, che, infastidita dalle briciole che stanno accumulandosi sul ripiano del seggiolone, le spazza via compiaciuta, incurante del fatto che queste non si dissolvono, ma si depositano sempre più numerose sul pavimento.(1)
Si tratta di una risposta che attrae perché affronta un problema reale e complesso, dando l’impressione che possa essere spazzato via.
Ne dobbiamo cercare altre, senza sorvolare sulla situazione esistente, prendendola in esame in tutti gli ordini di scuola, da quelle dell’infanzia alle superiori. Chiedendosi come fare per evitare che vi siano realtà nelle quali i genitori evitano di iscrivere i loro figli per la presenza di bambini stranieri. Domandandosi se gli interventi messi in campo, attualmente, siano resi possibili da dotazioni strutturali o non siano, piuttosto, il frutto di interventi esterni, in risorse umane ed economiche, e, quindi, dipendenti dalla buona volontà e da disponibilità presenti sul territorio. Poi, andiamo anche a studiare le esperienze migliori per trarne indicazioni per formulare delle proposte credibili.
Vi è, poi la scuola media, spesso l’ho sentita definire: “Un buco nero”. Forse è il caso di esplorarlo, prima di doversi indignare per la soluzione presentata dal governo.
Cerchiamo anche di prevenire l’indignazione per l’istruzione superiore, almeno per quanto riguarda gli istituti professionali i quali appaiono quelli in maggior sofferenza. Sono diventati, mi sembra, dei ghetti in cui si concentrano tutte le possibili situazioni di problematicità di apprendimento e di comportamento.
In che modo realizzare questo? Nell’interrogarmi assaporo tutta la mia impotenza. Forse, sono gli insegnanti che dovrebbero mettersi all’opera, in un movimento dal basso, che, all’inizio non potrà che utilizzare il passa parola e quello spazio di scambio virtuale rappresentato dal web. Può darsi che sia un’impresa impossibile, ma sarebbe mirabile recuperare la dignità dell’azione politica, attraverso la scuola e sulla scuola.
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NOTA
1) Il comportamento della figlia Giulia viene raccontato da E. Bencivenga, Oltre la tolleranza, Milano, Feltrinelli, 1992, p. 3