Maura ritorna per raccontarci la sua esperienza: da luglio insegna italiano ai richiedenti asilo nelle residenze di Zola Predosa e Quarto Inferiore. Luoghi di sosta, ma anche del perenne essere erranti.
E’ agosto, dal cielo nessuna lusinga. Una cupola di celeste caliginoso lascia che lo sguardo vi si inerpichi, ma non cede alcun esito alla fuga. Dopo essere scesa dall’autobus, devo percorrere a piedi un lungo tratto di pensieri prima di arrivare alla “Residenza per i richiedenti asilo e rifugiati”. Capita allora che uno sbadiglio vigoroso rianimi la voce di Jan, afghano, dai ricordi affastellati degli ultimi incontri: “Se spari con un Racket, è diverso dall’AK47, devi spalancare le mascelle, ancora di più di quando sbadigli, perché così si chiudono le orecchie e ti proteggi dal rumore”. Sono quasi in aperta campagna e il calore che sale dall’asfalto non sopravvive alle folate di vento che mi graziano ogni tanto, alleggerendomi la mente.
Supero una chiesa e scorgo la mia Domus, appollaiata ai margini erbosi della strada. Sembra volersi mantenere di spalle, ritrosa ai convenevoli, del resto è inutile che finga, è avanzo urbano serrato attorno al proprio vuoto centrale. L’entrata non è più schietta: un vestibolo curvato fa sì che per una frazione di secondo rimanga al buio tra l’esterno e l’interno. Non entro, trapasso.
Come davvero mi fossi sottratta a delle fauci, col fastidio di un’appiccicosa sonnolenza a corrugarmi la fronte, devo ripararmi dalla luce che piove diretta sul cortile. “Salàm, maestra”, il piccolo Lutfi mi affianca in questa radura di cemento grezzo; calpesto l’anelito di un peristylium, immiserito da stanchi fili di verde e da qualche lampione velato di ruggine.
Silvia sta ancora chiamando le africane; intravedo Eloise a cavalcioni sul braccio del divano che infligge la solita occhiata insolente a chiunque le ricordi di dare un senso alle sue ore. Abbiamo appena scoperto che in Comune ha dichiarato di essere analfabeta, firmando le carte con una X, mentre qui impinza quaderni dispettosi.
Gli appartamenti sono noiose composizioni di cubicula; vi si accede dalle sale da pranzo generosamente affacciate sul portico, con vetrate che da chiuse devono far pensare a dei garage.
Io entro dagli afghani, Mukhtaar guarda la tv rimanendo sdraiato sulla panca per gli addominali.“Su che cominciamo, dov’è Abdullah?”. Non aspetto la risposta, tanto è sempre la stessa. Mi infilo nella zona notte assistita dai lucernari all’angolo con il soffitto, scavalco uno stendino e busso: “Abdullah svegliati! Mancano dieci minuti, rinfrescati la faccia e vieni!”
Riguadagno la strada per la sala, l’aroma del caffè che Rezart mi ha fatto avvolge l’altro ben tenace del timballo di pesce di Amina ed esorcizza la nausea. Non deve essersi capito con Tarfah, così mi affaccio con l’ansia del condannato al pentolino che mi porge ossequioso. E’ colmo di un liquido biancastro animato da sinistri grumi galleggianti qua e là, “è un spesciale bevanda afghano”. Non ne dubito.
Tracanno quel brodo come l’ultima delizia e rispondo con un cenno a Naja dall’altra parte del portico; un sorriso a denti aperti, al centro di una maschera di crema sbiancante coronata da un cespo di ricci, tutto ciò farebbe impennare qualsiasi umore. Mi chiedo cosa farebbe del resto del corpo rimasto nero, se davvero quella poltiglia funzionasse e le “nobilitasse” la carnagione. L’accompagna Pervenche, oggi parrucca a nuances bionde. La congiura comica sembrerebbe dichiarata, se non fosse una prerogativa della platea africana questo vezzo della cura del corpo.Passo a onorare il caffè e rivolta ancora al defilè in cortile scopro Asmeret avviarsi all’aula praticamente in pigiama, con una coppola di cotone grezzo e un fascio precario di fogli di carta sotto l’ascella. Io adoro questo posto.
“Salàm, maestra, letto giornale? Altri 20 da Patrasso in camion come io, ah..”, si avvicina Nasser.
E’ la rotta battuta da afghani, iraniani e pakistani, spianata da chi è partito prima. Arrivano in Turchia su diversi mezzi di trasporto e attraversando chilometri di montagne a piedi, nelle peggiori condizioni atmosferiche. Dalle coste turche s’arrischiano in mare su gommoni già preparati da altri trafficanti. Se sfuggono alle guardie costiere approdano in Grecia dove puntualmente ad attenderli sono i centri di raccolta più discussi d’Europa. Scappano, s’infilano nei camion diretti in Italia e cercano di sopravvivere per la durata dell’imbarco. Una volta qui, è ancora un altro inizio, ma mai quello atteso.
“Sì Nasser, ti ho pensato, però tu sei stato fortunato, la terza volta ce l’hai fatta, ora sei qui..”
“Certo certo, però a faccio che cosa? N-i-e-nte.”
E’ partito otto anni fa dall’Afghanistan, lavorando ad ogni tappa per permettersi la prosecuzione del viaggio e qui non ha superato un colloquio perché fra un mese comincia il Ramadan: il possibile datore di lavoro temeva di perdere un mese di fatica a causa del digiuno giornaliero e dei ritmi di riposo a dir poco sconclusionati.
“C’è tanti paesi musulmani e alcuni sono riccissimi, come fanno loro se per un mese fermano tutti, nessuno non lavora? ma possibile, capisci maestra? Non si ferma metà mondo! Ci vuole guardare come funziona il mondo, maestra.”
Come spiegargli, senza offenderlo, e con le poche parole che so di francese, che il suo bel paese non è altro che un deserto che dobbiamo attraversare per giungere a quella che chiamano “l’integrazione”, “l’assimilazione”. (Agota Kristof in ‘L’analfabeta’)
L’uomo è l’unico tra gli esseri viventi a cercare un’immagine di sé. Di fronte all’Altro, terribilmente simile, esistere diventa ‘differenziarsi’, a costo di un periglioso scivolamento al di fuori dei confini già noti; tutto si azzera e i nomi e le funzioni devono essere assegnati da capo. Il n-i-e-nte di Nasser, il deserto della Kristof sono sospensioni interiori, l’immersione nell’opacità di nuove relazioni, nuovi odori, nuove verità.
Da una simile erranza si esce vivi solo per defezione della marca originaria, familiare, culturale e inesorabilmente psicologica. Non tutti ce la fanno. Per questi bracconieri di nuove significazioni, riferirsi a se stessi non è più immediato. Sono troppe le irruzioni sofferte e troppo a lungo ripetuti i tentativi di ammansire dentro sé i clamori del passato. Più facilmente si instaura un regime permanente di identità contrariate: l’’io’ non è un nome, la cui pronuncia possieda solo una possibilità, ma un luogo da attraversare ed è subito chiaro a chi si lanci nell’impresa che, una volta affondato un piede nella Terra dei Nuovi Nomi, non esisterà più un luogo che non abbia un altrove.
Ruth ha subito la violenza di sette soldati nella propria camera da letto, mentre il marito dissidente nel Congo di Mugabe moriva dissanguato in salotto.
Adel è stato trascinato in prigione per aver organizzato una manifestazione di protesta contro il governo di Ahmadinejad, ma non prima di assistere al pestaggio della moglie, incinta di sei mesi; mostra ancora i segni di quattro mesi trascorsi per terra con i polsi incatenati alle caviglie.
Farzad ha l’orecchio sinistro mutilato, non voglio chiedergli nulla. So già che suo padre è stato ucciso per gioco dai talebani, mentre attraversava la strada.
Jan, Sachi, Asif e altri ancora sono ragazzi di etnia Azara in un paese, l’Afghanistan, a maggioranza Pashtu; sopravvissuti alle uccisioni di massa, spesso orfani, molti non conoscono la propria età.
La spinta migratoria non è semplicemente la fame, quindi una mancanza vitale, ma lo scarto identitario tra sé e il mondo, un eccesso di vitalità: l’escrescenza che il magma sociale non assorbe e rigetta, inquieto. Eppure l’in-dividuus è tale perché in-divisibile dalla propria ‘differenza’ -politica, etnica, sessuale- indivisibile dall’Altro che vi dimora.
L’identità è l’orizzonte, inghiotte lo sguardo con la promessa di riconoscibilità e lo distoglie dalla paura delle sabbie mobili dell’uguaglianza. L’identità non è la radice irrorata dal delirio di compiutezza.
“Stanno arrivando, sono in tanti, sono già in Turchia, siamo in contatto. Tutti i giorni mi chiama qualcuno,sai Maura, dicono ‘tu non mi conosci, ma io conosco la tua famiglia’ e chiedono aiuto per quando sbarcano ad Ancona. Arriveranno in tanti..”
E’ curioso che il percorso emancipativo tracciato dal singolo sia il medesimo che la società deve seguire per sopravvivere al confronto con gli estranei-stranieri. L’“assimilazione” punta a negare. Che ci si sbrighi a capire che all’uomo è data questa sola occasione di avanzamento: rinnovare continuamente la rappresentazione di sé proprio rispecchiandosi nell’Altro da sé che già lo abita. Occorre coraggio.
Queste donne e questi uomini, ci offrono già la soluzione del problema che vogliamo costituiscano per noi. Basterebbe osservarli dibattersi tra gli innumerevoli modelli di comportamento che riescono a proporre dopo anni di adattamenti, finzioni e infine fughe. Basterebbe registrarne gli sbalzi d’umore, l’irrequietudine della memoria e dell’immaginazione. Sono specialisti dell’erranza, camminatori delle relazioni, per sempre e in ogni luogo stranieri e mai e a niente estranei.
“Sai Maura ieri al bar… era la prima volta che bevevo in un bar e poi una birra!… e se penso che la prima volta è stato con un’amica, una donna intendo… era tutto così normale, mi sentivo bene dentro, capisci… nessuno capirebbe questo in Afghanistan, nessuno me lo perdonerebbe… mia madre direbbe che da ieri non sono più suo figlio…”