Quella volta anche Franciska era scesa sulla terra. Le sue amiche nuvole lo facevano abbastanza spesso per passare il loro panno umido sull’erba, gli alberi e le foglie, tanto per togliere loro un poco della polvere di città. Franciska invece era curiosa dei comportamenti degli umani e si era decisa ad indagare di persona questa specie vivente che continuava a guardare il mondo con supponenza, come se pensasse tutto sommato di non farne parte.
Lei, dall’alto, vedeva il brulicare degli esseri viventi e non percepiva nessuna differenza tra il modo di stormire al vento di una quercia e il gesticolare di due umani fuori dal bar. La quercia rispondeva in quella maniera alla forza del vento, mentre i due uomini forse a un’inquietudine più interna, ma il tormento era lo stesso e la risposta sempre riconducibile al principio di azione e reazione; lei non aveva dubbi.
Franciska era una nuvola veramente speciale. Si riconosceva tra mille per quegli occhi chiari e profondi. Due cristalli verdi che sembravano dotati di luce propria, come si accende un prato quando è illuminato da un sole radente. Ma soprattutto colpiva la sua capacità di guardare al mondo da un punto di vista personale e assolutamente sorprendente. Aveva degli scienziati la capacità di riconoscere somiglianze e differenze, e dei poeti l’abilità di ricomporre le une e le altre in un’unica immagine armonica.
La sua stessa natura le faceva comprendere profondamente il principio d’inerzia: quel muoversi che è anche un restare, essere senza stare, le nuvole non hanno bisogno di capirlo perché semplicemente lo vivono. Franciska quindi si stupiva che gli umani considerassero questa una scoperta, che poi la considerassero loro la faceva addirittura sorridere. Perché non si creda che una tale saggezza fosse il frutto della sua natura aerea, devo sottolineare che vi sono molti casi di analoga filosofia tra i terrestri, un esempio per tutti, gli studenti somali della scuola italiana di Mogadiscio che chiedevano ai loro professori perché in Italia si insegnasse l’italiano: loro il somalo non lo studiano. Lo parlano.
Quella volta Franciska volle scendere sulla terra per avere conferma di una idea che guardando il mondo dall’alto le sembrava dotata della forza dell’evidenza: quel principio detto di inerzia, che gli umani avevano applicato alla natura inanimata, doveva essere in realtà una regola molto più generale che non accettava confini.
Percorse le strade, si fermò nelle piazze delle città, scese lungo i fiumi e ovunque trovò conferma che le differenze tra le cose non stanno nel loro essere ferme o in moto: ciò che appare fermo si muove, se visto da un altro punto di vista, e viceversa. E tutto restava com’era, se veniva a mancare una forza esterna, capace di imporre il cambiamento.
Ma si affacciò anche alle finestre delle case e guardò dentro. Vide uomini e donne che restavano insieme senza amore. Insieme ancora non per un legame che li tenesse, ma per l’assenza della forza che li staccasse. Vide ragazze che stavano male consapevolmente. Adolescenti che rifiutavano il cibo e si trattenevano volontariamente in uno stato di sofferenza; intelligenti eppure incapaci di accettare qualunque cambiamento che potrebbe farli stare meglio, rifiutati per il solo fatto di essere un’alterazione del loro stato.
Franciska vide anche uomini e donne legati da sentimenti forti. Legami spesso illogici, senza un futuro facile, contrari alle norme consolidate, eppure durevoli.
Legami che possono restare stabili solo per una forza interiore che costantemente li spinge e li porta a superare tutti gli attriti che ne vorrebbero l’estinzione. E dove la Franciska scienziata parlava di equilibrio di forze, la sua componente poetica racchiudeva quel conflitto nella complessità dell’amore.
Franciska sorrise del mondo che aveva visto più da vicino. Sorrise al mondo, come sempre faceva, e se ne tornò in alto, vicino alle stelle.