Le idee di Simone Weil sull’educazione e la sua esperienza d’insegnante possono offrire spunti interessanti di riflessione.
Per questo proponiamo alcune parti di un intervento di Maria Rosa Pantè sull’argomento
I sentimenti affettuosi esistono per aiutare a vivere, non per far soffrire
Simone Weil dedicò sempre la più grande attenzione ai suoi allievi come persone, ciò traspare dalle lettere alle sue studentesse. In esse scorgiamo: tenerezza, attenzione allo sviluppo intellettuale, ma soprattutto spirituale, attenzione alla salute, ai primi problemi affettivi. Talvolta traspare anche una sorta di timore nel “maneggiare” coscienze ancora in formazione, tanto che mantiene un distacco, frainteso da qualche allieva più giovane e sensibile. L’esortazione più importante è che bisogna “far bene ciò che si fa”, non è importante essere brave scolarette, ma è importante imparare, anche la matematica, e non per i voti, ma per sé.
In genere dalle lettere appare evidente che Simone è contenta quando ha aperto alle sue allieve nuovi orizzonti, è contenta d’aver dato loro uno spirito critico, anche se sente il peso della responsabilità assunta inconsapevolmente. Reputò sempre delicatissimo il rapporto con una mente adolescente, arrivò a mantenere, nei confronti di allieve che le si affezionavano troppo e pericolosamente, un distacco che talvolta venne addirittura frainteso dalle fanciulle e recepito come indifferenza verso di loro.
Da parte sua Simone non si risparmiò mai. Dalle testimonianze della madre, delle stesse allieve e persino dei numerosi ispettori inviati a controllarla traspare il suo impegno nel preparare le lezioni, nella correzione dei compiti. Ma non era tutto qui, Simone dava se stessa alle allieve.
Nonostante i moltissimi impegni sociali, la vita spartana e soprattutto i terribili mal di testa, Simone arriva sempre puntuale a scuola, carica di libri ottenuti con lo sconto da distribuire alle allieve, oppure coi compiti un po’ bruciacchiati dalla sigaretta ma perfettamente corretti o anche semplicemente con una lezione che magari aveva preparato di notte, al ritorno dagli incontri coi minatori o coi disoccupati… Anzi in ogni scuola in cui insegnò tenne corsi gratuiti di storia della scienza, di storia dell’arte, e questo disinteresse, così raro, non faceva che accrescere la stima delle fanciulle per lei.
Non si lasci persuadere che capisce ciò che non capisce.
Per parlare del metodo di insegnamento di Simone Weil è importante capire lo scopo della sua attività di insegnante. Leggendo i suoi testi, le sue lettere, la sua biografia, mi sembra che la frase posta nel titolo riassuma il senso più profondo della sua attività: “Non si lasci persuadere che capisce ciò che non capisce”.
È una frase che ha in sé stimoli per qualsiasi allievo, ma anche per qualsiasi insegnante, infatti, implica: non adeguarsi a letture precostituite; ragionare con la propria testa; rifiutare di ripetere e dare per acquisito ciò che non si è compreso; capire, studiare per capire!
La tecnica al centro della sua didattica era quella della scrittura – calligrafia. Non a caso diceva che “l’arte del vivere consiste nel buon uso del linguaggio”. Altrove scriveva: “Scrivere è un’abitudine, l’unica mediante la quale si possa arrivare al possesso di sé, lo stesso vale per l’abitudine alla geometria”. Faceva, dunque, scrivere alle sue allieve brevi compiti, che correggeva in modo molto puntuale, sottolineando soprattutto la logica del ragionamento e l’esattezza espositiva.
Tutti (…) devono essere uguali nella possibilità di costruire l’autonomia delle loro menti.
Simone lungo tutta la sua esistenza accanto all’esperienza “istituzionale” pose un’attività didattica “informale” rivolta a operai, minatori, disoccupati, pescatori: insomma a tutti coloro che erano in una condizione di oppressione non solo materiale, ma soprattutto culturale.
La sua attività si inscrive in un progetto ampio sulla cultura che parte dal seguente presupposto: “E’ importante discernere fra i tentativi di cultura operaia quelli condotti in modo da rafforzare l’influenza degli intellettuali sugli operai da quelli che vengono condotti in modo da sottrarre gli operai a questa influenza”. Infatti per lei la vera rivoluzione consiste nel dare ai lavoratori accesso all’istruzione e alla cultura; a questo proposito scriverà su “L’Effort” un articolo, in cui, rievocando il fallimento delle Università popolari prima della guerra del Quattordici, scrive: “In ogni epoca, la facoltà di maneggiare le parole è sembrata agli uomini qualcosa di miracoloso. (…) Il dominio di coloro che sanno maneggiare le parole su coloro che sanno maneggiare le cose, si ritrova ad ogni tappa della storia umana. Bisogna aggiungere che, nell’insieme, questi assemblatori di parole, sacerdoti o intellettuali, sono sempre stati dalla parte della classe dominante, degli sfruttatori contro i produttori”. “Il rispetto accordato al linguaggio e agli uomini più capaci di servirsene è stato indispensabile al progresso umano. Senza tale rispetto, gli uomini si sarebbero limitati alla pratica cieca e abitudinaria dei lavori indispensabili alla vita. È a partire dalla religione che si è sviluppato tutto il pensiero umano, ivi compresa la scienza più positiva. Perciò non è ispirando loro il disprezzo della cultura, definita a questo fine come borghese, che bisogna liberare i lavoratori dal dominio degli intellettuali. Certo la superiorità accordata finora agli intellettuali sui produttori, per una convenzione che è stata indispensabile allo sviluppo dell’umanità, ora deve essere assolutamente negata loro. Ma ciò non significa che i lavoratori debbano rifiutare l’eredità della cultura umana; significa piuttosto che debbono prepararsi a prenderne possesso, così come devono prepararsi a prendere possesso di tutta l’eredità delle generazioni anteriori. Questa presa di possesso è la Rivoluzione stessa. Secondo Marx, la conquista forse più importante della Rivoluzione proletaria deve essere l’abolizione di ciò che egli chiama “divisione degradante del lavoro in lavoro intellettuale e lavoro manuale”. L’abolizione di tale divisione degradante si può e si deve prepararla sin da ora. A questo scopo bisogna dare anzitutto agli operai il potere di maneggiare il linguaggio e in particolare il linguaggio scritto“.
Lo sa che è proprio bello essere insegnante in un buco qualsiasi?
È ora il momento di interrogarsi sul ruolo dell’insegnante e della scuola in Simone Weil.
Simone si rendeva conto già allora che gli insegnanti sono sfruttati, secondo lei non tanto a livello economico, quanto perché sottoposti ad un’oppressione intellettuale e morale. Ad un certo punto scriverà: “Non è restando infinitamente nell’insegnamento che potrò acquistare esperienza”, è certo il limite più grosso di chi vive nella scuola: in teoria non conoscere mai la realtà, non crescere mai del tutto, non affrontare mai il mondo esterno, adulto!
D’altra parte a una sua ex alunna scriverà: ”Lo sa che è proprio bello essere insegnante in un buco qualsiasi? È anche uno dei modi migliori a sua disposizione per entrare veramente in contatto col popolo”. Chi insegna sa che proprio questo è il lato più gratificante del lavoro entrare in contatto col popolo e, di solito, con la parte ancora quasi intatta, i giovani!
Concludo con una riflessione che si trova nei Cahiers. “Vi sono due maniere di mutare il modo con cui un altro legge le sensazioni, il suo rapporto con l’universo; la forza (la cui forma estrema è la guerra) e l’insegnamento. Sono due azioni sull’immaginazione. La differenza è che egli non si associa alla prima (reagisce solamente), mentre si associa alla seconda. Può darsi che con l’uso della forza si possa abbassare gli altri, o impedire che siano abbassati, non li si può innalzare che con l’insegnamento. Vi è una terza maniera, il bello (l’esempio)”.
Pensiamo a quanto un insegnamento bello, che ha per oggetto il bello divenga efficace e potente!
NOTA
Il testo integrale può essere letto su:
http://www.personaedanno.it/cms/data/articoli/files/007301_resource1_orig.doc