Questo intervento è stato presentato nell’ambito del Direttivo dell’associazione degli italianisti, sezione didattica, tenuto a Bologna nel novembre 2008.
È un’analisi approfondita delle presunte “innovazioni” sulla scuola introdotte dall’attuale governo.
Che le presunte innovazioni in materia scolastica siano attribuibili prevalentemente al ministro dell’economia e trovino quindi un senso solo in relazione ad esigenze di contenimento della spesa, è cosa ormai nota. Tuttavia l’assenza di un progetto di “riforma” che possa definirsi tale non sembra dovuta semplicemente ad incapacità e incompetenza: è parte di una precisa strategia che, agitando le logore bandiere del ritorno all’ordine, dietro il paravento di restaurazioni meramente formali, di fatto fa passare modifiche sostanziali che mirano a demolire ulteriormente la scuola pubblica. È un disegno sottile, giocato anche sull’ambiguità semantica delle sue espressioni-chiave: si dichiara enfaticamente di “guardare al futuro”, mentre si ripropone un ritorno al passato; si annuncia una “razionalizzazione” che non contempla investimenti, ma si traduce unicamente in tagli di spesa e riduzione del personale; si utilizza il termine “organizzazione” quasi fosse un sinonimo più “moderno” dell’ormai obsoleto “didattica”.
E che il decreto 137 a firma del ministro dell’istruzione sia solo l’epifenomeno di una manovra di matrice economica dall’inequivocabile connotazione politica, è confermato dal fatto che l’azione contro la scuola pubblica prende le mosse dalla Legge 6 agosto 2008, n.133, relativa alle disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria.
Nel Capo II della Legge 133 (“Contenimento della spesa per il pubblico impiego”), all’art.64 (“Disposizioni in materia di organizzazione scolastica”), il primo comma sancisce il carattere prioritario della riduzione del rapporto alunni/docenti. Di qui l’innalzamento del numero minimo di alunni per classe. Se si considera che il limite attualmente fissato di 25 comporta in media classi di 28-30 alunni, si può capire quale effetto ne deriverà per quanto concerne la qualità dell’offerta formativa (considerando anche la totale assenza, tra i programmi del governo, di un piano di ristrutturazione dell’edilizia scolastica). Complementare a questa disposizione è poi la drastica riduzione – ma potremmo dire il blocco quasi totale – del turn over degli insegnanti. Dunque, aumentando gli alunni per classe e diminuendo il numero dei docenti, si intende conferire “una maggiore efficacia ed efficienza al sistema scolastico” (comma 3).
Tuttavia a questi due provvedimenti se ne aggiungono due non meno gravi, ma sfuggiti all’attenzione dei più.
La legge 133 prevede la “ridefinizione dei curricoli vigenti nei diversi ordini di scuola anche attraverso la razionalizzazione dei piani di studio e dei relativi quadri orari, con particolare riferimento agli istituti tecnici e professionali”. Il tetto delle trenta ore settimanali significherà in molti casi la fine di curricoli sperimentali particolarmente validi: è ancora una volta un ritorno ad un vecchio ordine, destinato a cancellare le innovazioni degli ultimi venti anni. Ed è altresì significativo, per quanto riguarda gli insegnanti di lettere, che per il liceo scientifico si stia ventilando l’ipotesi di rendere opzionabile il latino in alternativa ad una seconda lingua straniera: sarebbe una maniera per liberarsi di quell’inutile appendice tanto odiata dagli studenti, senza ricorrere a proclami abrogativi che potrebbero suscitare le reazioni polemiche dei dotti, ma lasciando che sia l’utenza decretare la morte della disciplina. Ed è ovvio che questo comporterebbe un’ulteriore riduzione delle cattedre di lettere.
A ciò si aggiunga “la razionalizzazione e l’accorpamento delle classi di concorso, per una maggiore flessibilità nell’impiego dei docenti”, prevista dalla medesima Legge 133. Perché dunque preoccuparsi della chiusura delle SSIS? Perché insistere tanto sulla formazione e sulla specializzazione dell’insegnante? Del resto, se è sufficiente un maestro unico nella scuola elementare, analogamente gli insegnanti di lettere, filosofia o storia dell’arte potrebbero essere interscambiabili. Insomma, l’accorpamento delle classi di concorso, per il momento solo annunciato e non ancora definito nei termini operativi, se realizzato incautamente rischierebbe di far deflagrare la scuola pubblica, accrescendo la dequalificazione dei docenti.
Altra questione delicata, non ancora considerata con la dovuta attenzione, è quella che riguarda i libri di testo. Se il D.L. 137 prevede il blocco delle adozioni per sei anni nella scuola secondaria superiore, la legge 133 prescrive, a partire dall’anno scolastico 20011-2012, l’adozione esclusiva di testi in versione on line o mista (a stampa e on line), che dovranno essere costituiti da “sezioni tematiche, corrispondenti ad unità di apprendimento, di costo contenuto” – e dunque acquistabili separatamente – e dovranno, a seconda della disciplina, rispettare un numero massimo di pagine nella versione a stampa, “al fine di assicurarne il contenimento del peso”.
Tali disposizioni intercettano – e soddisfano demagogicamente – un bisogno reale, ampiamente diffuso tra le famiglie con figli in età scolare. Le versioni on line dei libri di testo saranno senza dubbio più economiche, soprattutto se potranno essere fruite – e quindi acquistate – parzialmente. Poco importa se questo contribuirà ad alimentare nei giovani la già dilagante disaffezione all’oggetto-libro con le inevitabili ricadute negative che essa comporterà sull’atto stesso della lettura. Ma d’altra parte la preoccupazione – più del ministro che delle famiglie – per il “peso” della cultura, cela l’intento di restringere il più possibile gli orizzonti del sapere, fornendo strumenti agili ed essenziali. E complementare a questo è il provvedimento relativo al blocco delle adozioni, che se da un lato sembra motivato dalla necessità di porre un freno al deplorevole fenomeno delle riedizioni inutili – apparenti novità motivate unicamente da intenti speculativi – , dall’altro ignora il progressivo ampliamento dei saperi, il necessario aggiornamento dei contenuti, la revisione dei canoni e degli statuti disciplinari, l’indispensabile evolversi della ricerca didattica.
Lo spettro del conflitto di interessi ancora una volta aleggia su questi provvedimenti: non sarà facile la sopravvivenza per quegli editori scolastici che né coprono altri settori del mercato né sono tutelati dall’appartenenza ad un gruppo come Mondadori education, che controlla circa quindici case editrici di testi scolastici. Ed ancora più inquietante si fa lo scenario, se si considera che il presidente del ‘Gruppo Editoria Scolastica’ dell’Associazione Italiana Editori è anche l’amministratore delegato di Mondadori Education. Ma al di là di questo e dei legittimi timori di una possibile omologazione dei testi scolastici ad un ‘pensiero unico’, è evidente che le nuove disposizioni andranno a colpire in modo particolare le antologie e i manuali di letteratura, che inevitabilmente risultano assai più voluminosi di altri testi. La semplificazione imposta non potrà che impoverire un sapere per sua natura complesso e per vocazione critico: la riduzione del “peso” di manuali e antologie, la loro rarefazione on line, la loro fruizione frammentaria e occasionale rischieranno di risolversi nella sanzione definitiva della marginalità dell’insegnamento della letteratura.
Assai poco possiamo oggi dire sulle sorti future della nostra disciplina, dal momento che le iniziative fin qui assunte dall’attuale governo sono totalmente avulse da un qualsiasi progetto formativo, del tutto estranee alle questioni che pertengono alla riforma dei saperi o alla ridefinizione degli statuti fondativi delle singole discipline. Quasi certamente i pani di studio e gli obiettivi specifici di apprendimento saranno integralmente mutuati dalla precedente “riforma Moratti” che – come tutti sappiamo – nell’ambito dell’insegnamento dell’italiano, già assegnava una indiscussa priorità all’educazione linguistica e mortificava lo spazio e il ruolo dell’educazione letteraria, ignorando del tutto le esigenze di rinnovamento del canone e limitando essenzialmente all’impiego delle tecnologie informatiche l’aggiornamento delle metodologie didattiche.
Se allora si mettono insieme i diversi tasselli, risulta evidente che l’intento complessivo di demolire la scuola pubblica, rischia di avere effetti devastanti in modo particolare sulle discipline umanistiche, sempre più diffusamente riconosciute poco utili. E d’altra parte la stessa chiusura delle SISS non è forse un chiaro segnale in tal senso? Occorre riflettere seriamente su questo. Certo, sappiamo bene che per quanto riguarda l’università non si opererà a colpi di decreti come per la scuola, che purtroppo non è altrettanto ben rappresentata in Parlamento. Ma non si può non considerare che anche il destino delle facoltà umanistiche è per buona parte legato indissolubilmente alle sorti della scuola.