Intervento presentato nell’ambito del Direttivo dell’associazione degli italianisti, sezione didattica, tenuto a Bologna nel novembre 2008.
Una riflessione sul disagio giovanile colto come frutto di una vera e propria “implosione culturale”.
Il malessere giovanile è, per ogni docente, una esperienza quotidiana.
Non è necessario consultare i quotidiani o Internet per conoscere una condizione di disagio che è ormai diffusa tra i nostri giovani e che non si limita più alla fascia d’età tipicamente adolescenziale (11-15 anni) ma che comincia assai prima e si prolunga sicuramente fino ai 18-19 anni e anche dopo, in quella specie di adolescenza prolungata, quasi “infinita”, in cui vivono i nostri giovani, attualmente.
Il luogo in cui questo malessere si manifesta con più evidenza è certamente la scuola, non solo perché è ormai diventata l’unico vero luogo di socializzazione – e dunque di condivisione degli affetti, emozioni e sentimenti- ma anche perché a scuola i nostri allievi trovano “ascolto”: gli insegnanti ci sono, offrono relazione, a volte sbagliata, ma certa, giorno dopo giorno. Cosa che non si può sempre dire delle famiglie in cui vivono.
Ecco perché gli insegnanti, anche senza volere, si trovano a conoscere, condividere e a relazionarsi con questo “disagio”, a cui spesso gli allievi stessi non sanno dare nome.
Scrive Umberto Galimberti (1): ” Interrogati non sanno descrivere il loro malessere perché hanno ormai raggiunto quell’analfabetismo emotivo che non consente di riconoscere i propri sentimenti e soprattutto di chiamarli per nome…Nel deserto della comunicazione, dove la famiglia non desta più alcun richiamo e la scuola non suscita alcun interesse, tutte le parole che invitano all’impegno e allo sguardo volto al futuro affondano…”.
Un disagio che spesso, nella cultura mediatica in cui siamo immersi, viene raccontato come un malessere psicologico o esistenziale ma che non è così, come giustamente sostiene Galimberti: (2) “ …nel deserto dell’insensatezza che l’atmosfera nichilista del nostro tempo diffonde il disagio non è più psicologico ma culturale. E allora è sulla cultura collettiva e non sulla sofferenza individuale che bisogna agire, perché questa sofferenza non è la causa, ma la conseguenza di un’implosione culturale di cui i giovani, parcheggiati nelle scuole, nelle università, nei master, nel precariato sono le prime vittime.”
Ma non è nemmeno esistenziale.
Qualunque insegnante sa, se ha attivato un reale canale di comunicazione con la sua classe, quanto i nostri allievi sanno essere “affettivi”, quanto possono investire in relazioni di amicizia e come coltivano l’amore e la tenerezza.
In un recente libro, Gustavo Pietropolli Charmet afferma (3): “Quando (gli adolescenti) sono dentro una relazione con un adulto abbastanza competente sono molto etici, s’impegnano sul piano della narrazione di sé, mostrano una grande capacità di ricognizione della loro mente. A dispetto delle apparenze sono affettivi: ad esempio, la loro vita di coppia è molto più evoluta di quella degli adolescenti di un tempo, hanno un livello di autonomia reciproca molto elevato, non coltivano eccessivamente il sentimento della gelosia, magari hanno smarrito il senso della grande passione amorosa, onirica, a vantaggio però di una certa pacatezza e stabilità.”
Da un punto di vista disciplinare, questo disagio si manifesta spesso come estraneità rispetto all’attività in classe, rispetto ai testi su cui si lavora, davanti alle richieste del docente. Spesso si hanno classi disciplinate, corrette anche affettuose ma per le quali si sente, si avverte, si sa!, che tutto ciò di cui stiamo parlando è avvertito da loro come lontano mille anni luce.
Questa “distanza siderale” ,quando si manifesta, produce cattivi risultati scolastici per gli allievi e profonda frustrazione nei docenti . Il problema riguarda non tanto i contenuti che si propongono ma la modalità cognitiva attraverso cui vengono proposti.
I nostri allievi, fin da bambini, trascorrono il loro tempo libero davanti al computer o a videogame che sono strutturati secondo la modalità cognitiva ipertestuale:si naviga da un link all’altro, in orizzontale ,con grande velocità , il loro cervello è diventato un “motore di ricerca”: procede per frammenti,sintesi,immagini in una modalità di conoscenza multitasking in cui si consultano contemporaneamente , e velocemente,più programmi aperti. I nostri studenti ,fuori di scuola, crescono apprendendo in modalità “zapping”, attività, questa, ripetuta davanti alla televisione per molte ore al giorno.
Esperienza di conoscenza questa che non riguarda solo i nostri allievi ma che si sta estendendo anche agli adulti che lavorano o consultano Internet giornalmente,usano la posta elettronica, cercano notizie, partecipano a chat o a gruppi di discussione e che ha modificato il nostro modo di “leggere”.
Maryanne Wolf in un suo recente studio (Proust and the Squid: the story and science of the reading brain, Harper Collins, 2008) ci fa notare che stiamo tutti perdendo la capacità di lettura profonda,
quella necessaria a leggere adeguatamente un romanzo o un saggio . Quello che gli psicologi si stanno chiedendo è se, di questo passo, perderemo anche la capacità del pensiero profondo.
Mettiamoci allora nei panni dei nostri allievi.
Ogni mattina ,quando arrivano a scuola, incontrano un sapere che è costruito in modo lineare, proposto con scansioni lente e con obbiettivi di apprendimento profondo,non misurato sui loro interessi ma su una programmazione individuata e scelta da un docente che , anche se giovane, non si è educato in modalità “zapping” e comunica con un linguaggio spesso difficile con termini astrusi e lontani dalla loro esperienza quotidiana, che non è fatta di buone letture letterarie: i nostri allievi leggono e scrivono molto ma sui blog e su messenger, dove si scambiano continuamente file e messaggi .
Insomma, docenti e studenti non solo parlano linguaggi diversi ma appartengono a due differenti culture che , a volte, dagli insegnanti vengono vissute come opposte, antitetiche ma che ,invece, sono solo diverse.
Per comunicare adeguatamente, l’una deve conoscere l’altra.
La pratica e l’insegnamento della letteratura possono essere il luogo privilegiato di questa conoscenza e di questo incontro, se è vero ciò che scrive Romano Luperini (4): “Lo studio della letteratura ha un vantaggio rispetto ad altri campi disciplinari: presuppone,nel proprio statuto epistemologico,la dimestichezza con l’altro…Il rispetto per il testo non è diverso dal rispetto per la persona. Conoscere un testo non è diverso da conoscere un altro uomo:è necessaria la stessa tensione dialogica ed etica.”
________________________________________________________________________________________________
Note
1) U.Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano, 2008, p. 11
2) Ibidem, p. 12-13
3) G. Pietropolli Charmet, Fragile e spavaldo. Ritratto dell’adolescente di oggi, Laterza, Bari, 2008, p. 25
4) R.Luperini, La fine del postmoderno, Guida, Napoli, 2005, p. 57