Un’analisi lucida sull’elusione delle domande fondamentali cui occorrerebbe, invece, dare risposta prima di intraprendere qualsiasi progetto di riforma della scuola.
Prima che l’ultima “riforma” della scuola, fra le polemiche che già si preannunciano più che numerose, sia varata e si incammini verso l’inesorabile fallimento al quale sono state votate le infinite altre che l’hanno preceduta, vorrei suggerire alcune riflessioni che ritengo avrebbero dovuto essere preliminari a qualsiasi intervento.
Chiediamoci, innanzi tutto, cosa l’istituzione scolastica rappresenti in generale, per le società di ogni tempo e luogo. Essa incarna, a mio avviso, la coscienza stessa della società che la istituisce, i suoi valori di riferimento e i suoi progetti, proprio come gli occhi sono lo specchio dell’anima.
Domandiamoci adesso, senza infingimenti, se la scuola italiana rifletta la società dell’Italia di oggi e, ammettiamolo, la risposta è no. Anzi, per fare un esempio, essa dà l’impressione di un attore che stia recitando le battute del protagonista di un’opera che non è quella che il resto della compagnia sta recitando. L’impresario non può limitarsi a riposizionare le luci o a ritoccare le musiche.
Inutile accanirsi a riformarla secondo una più o meno sofisticata ingegneristica che esprime, in una pessima neolingua, la deresponsabilizzazione cui anela, negli ultimi decenni, l’azione dei governi, che preferiscono sottrarsi al compito penoso di affrontare la vera sostanza dei problemi. Sostanza che non è di natura procedurale e formale perché, nel caso della scuola più che in molti altri, la questione è sostanziale, e concerne le passioni che muovono le persone in carne ed ossa, le mete per le quali esse sono disposte ad impegnarsi, a spendersi, ad investire il proprio tempo e le proprie risorse, e riguarda i sogni che la gente comune nutre, le ambizioni che animano i suoi comportamenti concreti.
Se dunque la scuola riflette la coscienza della società che la istituisce, individuerei tre fasi dell’evolversi della coscienza collettiva del nostro paese attraverso tre momenti della storia della scuola italiana.
Nella prima, una società, in crescita economica e morale, è desiderosa di farsi carico, per migliorarle, delle sorti delle sue componenti in affanno (i figli delle classi più povere e quelli che oggi si definiscono, con formale correttezza verbale, i diversamente abili) attraverso un progetto che coinvolge la scuola e la chiama a co-partecipare alla creazione di un futuro che si vuol costruire con generosità e fiducia.
Nella seconda fase, la società (non solo quella italiana) scarica sulla scuola tutto quell’impegno, che è diventato un onere, una greve incombenza di cui i singoli individui, proiettati all’affermazione personale, non sono più disposti a farsi carico. E’ a questo punto che cominciano i tagli sistematici alla scuola, che si pretende il successo formativo, che le si imputano tutti quei fallimenti che una società rampante ed egoista non ha il coraggio morale di attribuire (anche) a se stessa. Perfino la pedagogia si presta al gioco, ed assimila il carattere formale per abbandonare quello sostanziale, creativo, complesso e umano. Comincia a consumarsi quella rottura fra la società e la scuola che solo ai giorni nostri sta giungendo alla ratifica, con tutte le conseguenze del caso. I compiti della scuola, sulla carta, restano inalterati nella loro generica e vuota generalità, ma la società (i genitori, gli alunni, gli studiosi, i cittadini, i governi) prendono strade diverse, lasciandola supplire chi ha deciso di andare altrove.
Nella terza fase, quella che da qualche decennio sta maturando, la società (una società lacerata e in dissidio interiore, va detto) ha nuovi progetti, è animata da nuove dinamiche, sembra ispirarsi a nuovi valori. Ma da tutto ciò la scuola è esclusa: non è più alla scuola che si demanda la formazione dei nuovi soggetti assurti di fatto a modello della realizzazione sociale, economica e morale. Non è l’impegno scolastico (e universitario) il viatico per l’affermazione personale e sociale. Il divorzio fra scuola e società, può essere letto anche come uno straniamento della società dalla propria coscienza. Perché la società sembra non riuscire a trovare il coraggio di precisare la nuova identità, accettarla fino in fondo, delineare i contorni dei nuovi modelli, codificarli in una doverosa assunzione di responsabilità, chiedere all’istituzione scolastica di farsi interprete delle nuove esigenze e dei nuovi valori.
In altre parole, è lo spaesamento che attraversa la nostra società che va affrontato, prima ancora di qualsiasi riforma scolastica. La crisi di identità che viviamo è sotto gli occhi di tutti: i genitori non conoscono più i figli che hanno allevato perché la loro educazione è stata incerta, ondeggiante fra la generosità e l’egoismo, fra la socialità e il privatismo, fra la dignità e il servilismo, fra le passioni e la carriera, fra la coscienza e la connivenza, fra la verità e la menzogna, fra la severità e l’indulgenza.
Il ricorso ad interventi procedurali è diventato quasi un’ossessione, e sembra esprimere l’esigenza, quasi freudiana, di attribuire, in una sorta di transfert, all’istituzione scolastica, ormai privata di ogni senso, compiti e colpe che, francamente, non sono sue e che non saranno risolte con l’accentuazione dell’autonomia, con una diversa selezione, valutazione e normativa dei docenti, con maggiori poteri ai presidi. Questi sono, ancora, modi di girare intorno al vero problema. Come legge se stessa la nostra società? Cosa vuole che la scuola insegni ai suoi figli? Quali valori intende tramandare di sé? Verso quali orizzonti futuri desidera proiettarsi?
Parafrasando Pirandello, la scuola italiana ha bisogno di un autore ossia di una società pacificata, consapevole di se stessa, responsabile, capace di individuare il cammino che vuole percorrere. Prima di aver risolto i dissidi con la propria identità, è inutile che, per mano di ministri più o meno competenti, per mano di governi più o meno popolari, ci si provi a forzare l’anima esangue della scuola. E’ inefficace, ipocrita, ridicolo. Nessuna persona dotata di buon senso ci crederà.