‘Ala Al-Aswani, Se non fossi egiziano, trad. di C. La Barbera, Milano, Feltrinelli, 2009, pp.221, € 16,00
Il libro, Se non fossi egiziano, è una raccolta di diciassette racconti; all’inizio del primo, I quaderni di ‘Issam ‘Abd Al-‘Ati, si scopre il significato del titolo, tratto da una frase di Mustafa Kamil: “Se non fossi egiziano, egiziano vorrei essere”, che così viene commentata dal protagonista “Ho scelto questa citazione come incipit di questi quaderni perché è la frase più stupida che abbia mai sentito in vita mia.” (p.23)
Il libro, anzi, per meglio dire, il primo racconto ha avuto una travagliata la vicenda editoriale che ci viene spiegata nella prefazione: la censura, impersonata da impiegati di solerte ottusità, ne ha impedito a lungo la pubblicazione perché offensivo nei confronti dell’Egitto; presumo che, finalmente, la sua uscita sia stata determinata dal successo dei due successivi romanzi (Palazzo Yacubian e Chicago).
È certo che l’invenzione letteraria prende il via dalla constatazione che “ l’Egitto, a causa del dispotismo e della corruzione che regnano sovrani, stava perdendo in ogni campo grandi energie e grandi talenti…” (pp.16-17).
Ecco, allora, presentarsi a noi personaggi sconfitti, marginali, miseri anche se cercano di mantenere una loro dignità, ipocriti o decisamente abbietti.
Un’umanità varia verso la quale lo scrittore, nell’impersonalità della descrizione realistica, precisa e dettagliata, esprime e suscita sentimenti diversi.
Impietoso nella rappresentazione del grasso e laido dottor Sa’id, o di Hajj Ahmad, angosciato perchè la morte improvvisa del padre rischia di impedirgli di mangiare prima che cominci il digiuno per il Ramadan. Rappresentazioni , a volte, stemperate dall’ironia come nel ritratto della studentessa, di così alta moralità e modestia, che riesce accortamente a farsi sposare e ad ottenere una grossa somma di denaro.
Malinconico, di una rassegnata malinconia, quando, ad esempio, descrive le ambasce del povero Guda causate dalla bianca camicia lisa che indossa.
Partecipe nel mostrarci la tenace lotta di “Izzat Amin Iskander, “con la sua stampella e la sua gamba artificiale” (p.165) per essere come tutti gli altri.
Rabbioso quando racconta il destino della città di Jenin, rasa al suolo nel giugno del 1967, e dei suoi abitanti di così pacifica e stupida ingenuità. “La mia storia… è una di quelle incivili storie di arabi che non sanno come bisogna comportarsi” (p. 131).
Non credo che questa opera si possa definire una fotografia dell’Egitto moderno. Riprendendo le parole dell’autore: – la letteratura è l’arte della vita. […] è vita su carta, che somiglia alle nostre vite quotidiane ma è più profonda, più bella e più pregna di significato. (p. 12) – , si può dire che ha dato vita a personaggi che sono presenti in qualsiasi contesto umano.