Sul “Corriere della sera” del 13 settembre 2009 viene pubblicato un editoriale di Ernesto Galli Della Loggia (http://www.corriere.it/editoriali/09_settembre_13/Su_quei_banchi_ci_siamo_tutti_editoriale_galli_della_loggia_6a77341c-a034-11de-8194-00144f02aabc.shtml), che ci è stato segnalato con l’accompagnamento di due commenti.
Pubblichiamo il tutto come contributo ad un dibattito sulla scuola. I due commenti sono, senza dubbio, critici, ma il dissenso che espone le proprie ragioni dovrebbe trovare (il condizionale è d’obbligo perché sembra che nel nostro paese sia diventato, invece, intollerabile) una tranquilla accettazione.
Scuola, la vera emergenza
SU QUEI BANCHI CI SIAMO TUTTI
di Ernesto Galli Della Loggia
Da anni l’istruzione è il cuore malato dell’Itala inferma. È lo specchio del nostro declino. Siamo agli ultimi posti nella classifica dei rendimenti scolastici, il che vuol dire che i giovani italiani sanno far di conto, scrivere e capire un testo peggio di quasi tutti i loro colleghi non italiani, mentre i due grandi punti di forza della nostra tradizione scolastica, la scuola elementare e il liceo, sono ormai solo la pallida ombra di ciò che furono. Sul versante finale, le nostre migliori università, gestite troppo a lungo dal potere arbitrario di chi vi insegna, e soffocate da problemi di ogni tipo, fanno una ben misera figura rispetto alle migliori straniere.
È vero: da decenni la quota di spesa pubblica destinata all’istruzione è troppo bassa; ma attenzione: specie per quel che riguarda l’istruzione primaria e secondaria essa non è poi così catastroficamente bassa rispetto alla media europea. Guardando le cose nei loro termini più generali, il problema centrale del nostro sistema d’istruzione appare soprattutto un altro. È il fatto che l’ambito della scuola e dell’università è quello dove da circa mezzo secolo si manifestano con particolare virulenza tre aspetti critici della nostra vita collettiva: il potere sindacale, il timore sempre in agguato per l’ordine pubblico (comune a tutti i partiti e a tutti i governi), e infine la diffusione, nella scuola e fuori, di un senso comune culturalmente ostile alla dimensione del merito, del dovere, della disciplina, della selezione. I lettori sanno di cosa parlo. La scuola è rimasta un settore dove i sindacati e le loro logiche corporative hanno in buona parte ancora oggi un virtuale diritto di veto su qualunque decisione non solo di tipo organizzativo (circa le carriere e le assunzioni del personale), ma anche sui programmi e in generale sulla didattica. Egualmente, basta la più piccola minoranza studentesca che organizzi un corteo o un sit-in perché il mondo politico sia attraversato da un brivido di speranza o di paura credendo di scorgere all’orizzonte una riedizione del mitico Sessantotto. E nel complesso, poi, guai a chiunque dica che nell’istruzione il permissivismo va messo al bando, che ogni apprendimento esige anche sacrificio, che non tutti alla fine possono risultare capaci e meritevoli.
In queste condizioni fare il ministro dell’Istruzione e dell’Università in Italia equivale a essere una specie di san Sebastiano: bersagliato da ogni parte, schernito, vilipeso e mostrificato alla prima occasione, destinato quasi sempre a scontentare tutti. Da Gui alla Moratti, passando per De Mauro e Berlinguer, è stato in pratica un vero e proprio martirologio politico, e anche l’anno scolastico che si apre in questi giorni minaccia come al solito tempesta sul capo del san Sebastiano di turno, il ministro Gelmini. Dal momento che scoccare frecce verso chi si trova legato al palo dell’istruzione è facile, molto facile: e infatti nel corso degli ultimi decenni nessuna forza politica si è sottratta alla tentazione di farlo ricavandone il misero utile del caso.
PERÒ GELMINI SE L’È UN PO’ CERCATA.
di Vincenzo Pascuzzi
In relazione al suo articolo “Su quei banchi ci siamo tutti” (Corriere, 13.9.2009), vorrei poter fare a Galli della Loggia due domande:
– dove è stato negli ultimi 14 mesi? – si è forse autonominato avvocato d’ufficio della Gelmini? Mi sembra veramente fuori luogo ed eccessivo paragonare la Gelmini a San Sebastiano di Narbona, come pure ai ministri che l’hanno preceduta. Sicuramente nessuno la tiene “legata al palo dell’istruzione”, anzi! I precari della scuola avevano capito subito le sue intenzioni e le conseguenze della sua c.d. “riforma” (più un espianto che una riforma) e già il 23.7.2008 manifestavano con un sit-in a Montecitorio (“Sotto il grembiule, niente!”). Dopo gli scioperi e le massicce manifestazioni del 17.10.2008 (Cobas ed altri) e poi del 30.10.2008 (Cgil ed altri) le sue dimissioni sarebbero state doverose, opportune, chiarificatrici. Gelmini invece ha insistito, o è stata costretta, a rimanere e siamo arrivati alla situazione attuale.
Riguardo al “potere sindacale” e al loro (dei sindacati) “virtuale diritto di veto”, questi mi sembrano molto affievoliti. Dopo le manifestazioni di ottobre, alcune sigle si sono sfilate e sono entrate (sembra) in sintonia col governo. Solo adesso la situazione si sta un po’ modificando ad opera della base, dei precari che salgono sui tetti, si incatenano, si esibiscono in mutande, fanno scioperi della fame, sit-in e altre manifestazioni.
Poi il “timore per l’ordine pubblico” e l’ostilità nei confronti del “merito” ecc. sembrano del tutto pretestuosi e strumentalizzati.
Relativamente alla “quota di spesa pubblica destinata all’istruzione (che) è troppo bassa”, lasciamo stare le considerazioni qualitative e soggettive ma vediamo le quantità, i numeri: in Italia la spesa è pari al 4,7% del pil a fronte del 5,5% della media UE e del 5,8% della media OCSE. Vuol dire meno 17% rispetto all’UE e meno 23% rispetto all’OCSE. Non servono commenti!
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LA SCUOLA NON CI STA AD IMPERSONARE IL CAPRO ESPIATORIO
di Lea Reverberi
Ernesto Galli della Loggia afferma che la scuola (come l’Università) “ è il cuore malato dell’Italia inferma”, che “è lo specchio del declino” del nostro paese. Sui banchi della nostra scuola, insomma, c’è tutta la società italiana, nessuno escluso. Cosa dire, infatti, della crisi della famiglia, nel cui nome e nel cui fatto tanti genitori si sottraggono al difficile ed oneroso compito di aver cura dei figli, divenuti sempre più oggetto di schizofreniche e balorde pratiche educative che di educativo non hanno proprio nulla? Cosa dire della crisi dei valori, che ha trasformato l’etica in etica del successo, ha confuso l’avere con l’essere, ha sostituito alla coscienza la connivenza, alla cordialità l’arroganza, alla nobiltà la volgarità, la disonestà all’onestà, la furbizia all’impegno, il falso al vero? Cosa dire della crisi delle classi dirigenti degenerate in rapaci oligarchie, incapaci e autoreferenziali? Cosa dire, ancora, dei modelli concreti che la nostra società propone ed impone ai suoi rampolli, nel mentre pontifica vacuamente su merito, capacità, dovere, disciplina, selezione, sacrificio? Cosa dire del tradimento degli intellettuali, le cui ben pasciute coscienze tacciono, o sono divenute sterili a furia di calcoli?
Sui banchi delle nostre scuole in crisi ci siamo, dunque, proprio tutti noi italiani: dirigenti scolastici e docenti in primis. E poi gli alunni, i loro genitori e parenti, i bidelli, il personale amministrativo. Ma anche politici, industriali, giornalisti, impiegati, intellettuali, automobilisti, pedoni, elettricisti, ingegneri, spergiuri, devoti, medici, ragionieri, veline, presentatori, fotografi, pensionati, cassiere, vigili urbani, ministri, parrucchieri, avvocati, sindacalisti.
Perché, allora, se tutto ciò è vero, Galli della Loggia se la prende solo col potere (o strapotere) sindacale e con il timore per l’ordine pubblico?
In verità se la prende anche con la cultura sessantottina del permissivismo, in altre parole, quella che aborre ogni discorso sul merito e che dal sindacalismo e dal ribellismo studentesco sarebbe interpretata.
Ora, proprio nel ripudio di questa cultura, io mi domando, e domando: se è vero che la scuola è lo specchio del nostro paese, basterà abolire il sindacato, proibire le manifestazioni studentesche, bocciare gli asini per vedere ripristinato il merito nella selezione delle classi dirigenti e del ceto politico, nella progressione delle carriere, nella conquista di un posto di lavoro, nell’accesso all’insegnamento universitario, nella distribuzione del reddito e nella retribuzione?
Mi permetto di continuare a nutrire qualche (ragionevole) dubbio. Sotto sotto, sono restia a credere che, con qualche modifica di carattere organizzativo, la pace possa tornare a regnare in Danimarca. Protendo per più realistiche visioni del mondo e della storia, che vedono in essa il luogo dello scontro, anche duro, di passioni ed interessi.
In altre parole, l’attuale classe dirigente italiana, e quella politica di tutto l’arco costituzionale, non hanno interesse a sopprimere se stesse. E non lo faranno, finché non ne saranno, in qualche modo, costrette.
La scuola non ci sta ad impersonare il capro espiatorio delle colpe dell’intera società. Non siamo in un romanzo di Pennac!