Dovere, compassione e giustizia parole che sembrano aver perso ogni rapporto con la realtà, con gli altri e con noi stessi. Dal mondo classico un richiamo a interrogarci ancora sul loro senso, sulla loro forza.
Due uomini sbarcano su un’isola sperduta, sono due ufficiali: uno, il più anziano istruisce il compagno, gli spiega come portare al successo la loro missione. È essenziale unire la sua astuzia senza principi morali (“Non esitare, quando miri all’utile”) all’ardimento e alla generosità del giovane, che, però, è turbato poiché la sua anima è retta e odia gli inganni. Infine cede e si avvia a compere il suo incarico.
Un incarico particolare: deve convincere un uomo a seguirlo poiché solo grazie alle sue armi miracolose verrà vinta una guerra che dura ormai da dieci anni.
Il giovane sa che sarà difficile convincere l’uomo a seguirlo e quasi impossibile chiedergli le famose armi. L’uomo, infatti, molti anni prima, era stato morso da una serpe a una gamba, la ferita s’era malamente infettata, il fetore della sua piaga era insopportabile, i lamenti raggelavano l’esercito pronto alla guerra. Così l’uomo con le sue armi era stato lasciato lì, in quell’isola, solo e senza la possibilità d’essere curato.
Colui che aveva deciso di lascialo al suo destino era proprio il vecchio comandante che ora vuole carpirgli le sue armi micidiali.
Per evitare che il malato riconosca e uccida il vecchio comandante che l’ha abbandonato, viene mandato a ingannarlo il giovane sconosciuto dall’aspetto onesto.
L’uomo si strugge di dolore fisico, di solitudine e di abbandono. È esule, malato di una malattia ripugnante, sopravvive nella speranza che qualcuno lo riporti a casa e lo curi.
“Su lui piango, per la sua/ solitudine dagli uomini:/ lui, che mano sanatrice/ mai non sfiora, o/ sguardo amico;/ lui dolente in abbandono,/ lui malato d’aspro male.”
Quando il malato, che si chiama Filottete vede il giovane soldato, Neottolemo è il suo nome, e i suoi compagni, li invoca, chiede che lo curino, poiché il suo male lo distrugge e la solitudine lo consuma.
“Non mi restate là, turbati e inerti/ per spavento dell’esule ferino,/ma la pietà per l’infelice, il solo,/ l’abbandonato, il senza affetti, il vinto/ dal male trovi voce, e dite almeno/se v’accostate amici.(…)”
Neottolemo si avvicina al malato gli offre aiuto, gli promette di riportarlo a casa, ne conquista la fiducia; sincera è la sua compassione per le sventure d’un uomo abbandonano nella malattia senza cure e conforto.
Il vecchio Filottete si fida del ragazzo e gli consegna le armi, le famose armi micidiali che un tempo furono del grande eroe Ercole e che rendono invincibile chi le possiede. Mentre sta per seguire Neottolemo, però, Filottete viene preso da un attacco terribile del suo male, egli invoca la morte:
“O Morte, Morte,/o invocata ogni giorno e senza sosta,/perché, perché non mi raggiungi ancora?”
Poi, spossato, si addormenta. Il giovane potrebbe approfittarne e fuggire, ma la menzogna gli ripugna e attende il risveglio del malato. Quando Filottete si riprende, Neottolemo gli spiega che non è capitato lì per caso, ma proprio per cercare lui, le sue armi e per portarlo con sé alla guerra e poi farlo curare. Filottete si sente ingannato e rifiuta categoricamente di seguire il ragazzo perché aiuterebbe proprio quelli che l’hanno abbandonato. Il malato si ritira nella sua caverna e Neottolemo se ne va.
Ma il ragazzo non resiste al rimorso e decide di tornare a prendere Filottete per portarlo alle sue case, per porre fine alla sua malattia. Il dialogo tra lui e il vecchio astuto e crudele condottiero, che è Ulisse, è molto duro:
“NEOTTOLEMO Scaltro nascesti, ma scaltro non parli.
ODISSEO E tu, né azioni, né parole hai scaltre.
NEOTTOLEMO Giuste. E giustizia scaltrezza sovrasta.”
Vinca dunque la giustizia, anche se Ulisse interviene per portare Filottete sulla nave con la forza. Tremendo stupore e grande ira prendono il malato quando rivede colui che tanto tempo prima l’aveva abbandonato senza curarlo. Vorrebbe ucciderlo, in mano ha la sua arma formidabile, che Neottolemo gli ha restituito, ma si ferma e anzi, nel momento più critico appare l’ombra di Ercole, il primo proprietario di quelle armi, che induce il vecchio Filottete a compiere il suo dovere: seguire i Greci e andare a Troia per porre fine col suo arco alla guerra.
Filottete si allontana con Neottolemo e saluta commosso quello scoglio solitario che l’ha accolto e nutrito con più umanità dei suoi stessi compagni.
Giustizia prevalga: anche un esule, un malato ripugnante abbia compassione e cure, così scriveva Sofocle nella tragedia Filottete ad Atene nel V secolo a. C.
Sofocle fu soldato e contemporaneo del medico Ippocrate, che scrisse il famoso giuramento di cui riporto un brano molto attuale: “In qualsiasi casa andrò, io vi entrerò per il sollievo dei malati, e mi asterrò da ogni offesa e danno volontario, e fra l’altro da ogni azione corruttrice sul corpo delle donne e degli uomini, liberi e schiavi.
Ciò che io possa vedere o sentire durante il mio esercizio o anche fuori dell’esercizio sulla vita degli uomini, tacerò ciò che non è necessario sia divulgato, ritenendo come un segreto cose simili.”