Gli insegnati non debbono fare politica è un ritornello che, ormai, risuona tanto spesso da essere diventato stucchevole. Ecco un’insegnante che, in una riflessione dura e appassionata sul presente della scuola, riconferisce al termine politica il suo significato alto e autentico.
L’autrice cura un blog: http://eumachia.blog.kataweb.it/ vivace e stimolante .
Un insegnante che si professi “impolitico” è come un pesce che si proclami asciutto. La politica, infatti, come il linguaggio, è uno di quei “metacodici” dai quali non si scappa, rispetto ai quali non c’è alcuna extraterritorialità possibile. Quanti sostengono che il linguaggio non definisce e che non è che un divertissement, per esempio, adoperano tuttavia il linguaggio, per sostenerlo, così come quanti sostengono che la politica non può coinvolgerli, che non basta o che non serve, fanno politica proprio mentre dichiarano il contrario.
La scuola pubblica è un luogo naturaliter politico, anzitutto perché accoglie individui che, secondo certi orientamenti di pensiero, non dovrebbero essere formati o dovrebbero essere educati in modo differenziato (femmine, poveri, non cattolici, immigrati); in secondo luogo, perché sottopone (dovrebbe sottoporre) a giudizio critico, senza eccezioni, eventi, principi, assiomi e categorie di pensiero che le singole correnti ideologiche vorrebbero fissare immutabilmente e universalmente, come verità assolute. In questo, la scuola è (potrebbe essere, cioè, se venisse presa sul serio da docenti e studenti), una fucina immensa e strutturalmente “eversiva” – o, almeno, progressista – di proposte e soluzioni stricto sensu “politiche”, cioè sociali, territoriali e culturali. Il problema è l’ONESTA’ intellettuale e morale con la quale si accede alla scuola e si cerca di “farla”.
Purtroppo ce n’è poca, tra i docenti come tra gli studenti.
I primi (a parte le irritanti “mogli di”, che hanno solo bisogno di un “setting” entro cui sfoggiare il nuovo tailleur Armani o il potente suv) troppo spesso percepiscono la scuola come una comoda nicchia entro cui collocarsi con il minimo della responsabilità e il minimo dello stipendio garantito.
I secondi, invece, fanno i “rivoluzionari” del cavolo o si atteggiano a parte “sana” del paese; gridano slogan contro i Casalesi e le mafie per la strada, col loro bravo striscione in mano, cosa che NON COSTA NULLA, ma poi, quando si tratta di “rimetterci”, la legalità se la mettono sotto i piedi allegramente, copiando la versione (addirittura rivendicando arrogantemente il “diritto alla copiatura”!), imbrogliando, ricattando i docenti, CHIEDENDO E ACCETTANDO RACCOMANDAZIONI per frodare utilmente e vantaggiosamente quel sistema che dicono di essere gli unici a poter riformare, una volta eliminati i “dinosauri” retrivi e conservatori (NOI, NELLA FATTISPECIE!!) …
E’ l’ipocrisia trasformista e qualunquistica che ammazza la politica. Conseguentemente, ammazza la scuola.
Ho provato molta vergogna per una collega “impolitica” (non nel senso travaglioso del termine, ma in quello deteriore, cioè nel senso di chi non si pone proprio certi problemi comunitari e ideologici perché chiuso in un mondicino piccolo piccolo fatti di abitudini, sicurezze paesane e sciocca retorica familista), che, in un consiglio di classe, ha rinfacciato ai ragazzi di essersi messi a lottare “per l’universo mondo” pur non potendosi permettere assenze a motivo delle carenze “didattiche”…
Come se studiare Foscolo o Cicerone significasse solo mandar giù pezzi di traduzione a memoria e le date di nascita e morte e non, invece, comprenderne e attualizzarne, sia pure senza forzature indebite, l’esperienza e la passione politica e civile!
Come se la storia, la letteratura, l’arte, fossero estranee alla “vita”; come se si trattasse di giocattolini sciocchi con cui intrattenere i bambini fino a che non abbiano l’età per fare cose più serie (comprare e vendere merci, per esempio) …
Questa ottusità, spesso riscontrabile nei professori, non solo alimenta la rabbia e dà infiniti alibi ai ragazzi meno puliti, facendoli sentire più colti, più “importanti” e più “impegnati” degli adulti di riferimento, ma crea anche le condizioni per un ESIZIALE FRAINTENDIMENTO sul ruolo della scuola e sul genere di cultura che trasmette (identificata, dai ragazzi, più o meno onestamente, con il nozionismo sterile, disancorato dal presente e destrorso).
Schierarsi si DEVE, ma non pro o contro i ragazzi, bensì pro o contro i modelli educativi che i governi propongono. Ci si può anche schierare a favore della protesta senza condividere le sue forme, spesso esasperate e radicalizzate dalla voglia di non fare niente a scuola e di guadagnare un anno forzando la mano ai professori (tanto, pensano i ragazzi, ci guadagnano tutti: i docenti, che, come è noto, non vogliono far nulla; gli studenti, che passano alla classe successiva senza studiare e i genitori, che vedono i figli promossi senza “traumi”).
Schierarsi è un dovere non solo durante l’occupazione, ma durante ogni singola lezione. E’ questa la nostra “maturità”, la prova della nostra maggiore “strutturazione” esistenziale rispetto a quanto i ragazzi esperiscono. Capire le cose dall’interno, metterne in contrasto o in parallelo i piani ontologici e quelli linguistico-definitori, per giungere alla rimozione dei pregiudizi: questa è la nostra “specificità” difficile e pericolosa; questo il nostro quotidiano rischio, il nostro quotidiano dono.
Un quindicenne di oggi, infatti, per il resto, quanto a “esperienze”, ha alle spalle più viaggi, vita, relazioni di quante potrebbe averne un settantenne della mia generazione! Vivono (ovvero credono di “vivere”) di più, i ragazzi di oggi, precocemente “adultizzati”; bruciano subito tutto; sono affamati di “cose” e non ne apprezzano la risonanza nelle parole, le parole che spiegano, circoscrivono, complicano, prefigurano; le parole che poeticizzano, che lasciano intravedere, che reduplicano, che inducono a vagheggiare, a sperare, a scoprire…
Ecco perché (come ha detto un alunno a una mia collega, con vera o finta angoscia pseudoesistenziale) non riescono neanche a finire il succo di frutta. E non ci riescono anche perché lo danno per scontato; non pensano al miracolo del frutto cresciuto e raccolto, sbucciato, premuto, controllato e imbottigliato per loro, per la loro sete. Credono che il “desiderio” faccia girare il mondo perché la pubblicità, che li vuole perfetti consumatori, li induce a crederlo, ma se la scuola dice loro che non è così, che sono tante le cose che fan girare il mondo e tante di più quelle che potrebbero farlo girare meglio, non ascoltano, perché non conviene, perché altrimenti dovrebbero lavorare, capire, sceverare sensi e significati…
Per carità! E’ assai più facile e comodo fare gli epigoni allo sbando con le scarpe da 400 euro al piede, lagnandosi delle condizioni in cui la NOSTRA generazione di “perdenti” gli ha lasciato il mondo!
Quando ho portato in classe, nel corso della mia prima supplenza, una boccetta con della sabbia prelevata nelle adiacenze delle piramidi da parte di alcuni miei parenti, credendo di fare un “coup de théâtre”, gli alunni di una quarta ginnasio (14 anni), di fronte al mio entusiasmo, mi hanno guardato disgustati e mi hanno detto, con tono tra il nauseato e il patetico: “Ma lei non è mai stata a Sharm El Sheik?” Diamine!! Solo una professoressa pezzente poteva eccitarsi di fronte a una cosa tanto “scontata” come la sabbia delle piramidi!
Molti di questi stessi alunni, però, alla domanda, posta in un test di ingresso di storia, sui riti funebri degli antichi egizi, avevano barrato l’opzione della cremazione.
Quel che voglio dire è che la tristezza della maggior parte dei ragazzi di oggi, il loro famoso ”disagio” non ha radici ideologiche, né si origina dalle inquietudini per il difficile e imprevedibile futuro, ma è dato dalla morte dell’ingenuità, dall’equivoco che toccare, mangiare o “fottersi” (scusate) le cose (e le persone) significhi “conoscerle” tout court, e, quindi, dal senso di sazietà, di vuoto che prende questi pargoli di fronte alla constatazione che la vita offre troppo poco alla loro epidermica curiosità, presto soddisfatta grazie alle risorse economiche e alla condiscendenza eccessiva dei distratti e spesso inqualificabili genitori.
Il fatto è che non entrano nel circuito del narrato, che amplifica e ri-crea il vissuto, per cui il loro agire è senza risonanze, è un “provare tanto per provare”. I furori epici che vorrebbero nella loro spenta giovinezza non sono per via: sono in biblioteca, ma loro non ci credono, ovvero non hanno la pazienza di cercarli lì, per poi entrare nell’agone politico con un munimen più adeguato e stimolante di citazioni, argomentazioni e “passati” da utilizzare per affermare i propri principi (che pure, ugualmente, restano imperfettamente e spesso nebulosamente individuati e motivati).
Chi non sa neppure che gli Egizi mummificavano i morti è tuttavia CONVINTO di sapere sull’Egitto più cose del professore, perché… E’ ANDATO A SHARM EL SCHEIK, perché ha MESSO PIEDE sul “concetto Egitto” come turista mordi e fuggi, perché ha bevuto il locale e speciale cocktail sotto la tenda o ha preso il sole sulla spiaggia col cammello deambulante a fargli da scenografia cafona.
Non basta che i docenti vogliano “cambiare” la scuola. Io ho trovato sempre resistenze grandissime alla mia didattica “alternativa” e “spaziante”. I ragazzi, per lo più, sono conservatori, ipocriti e utilitaristi.
Tutto quello che non sarà oggetto di verifica e “interrogazione” non è neanche degno di essere ascoltato (“sull’articolo portato in classe; sulla slide di approfondimento predisposta ad hoc e presentata con il portatile; sul libro di Thomas Mann regalato per far capire meglio il rapporto tra morale e arte, NON CI INTERROGA” – pensano – “per cui possiamo fregarcene o far casino”!).
Sono i ragazzi che vogliono una scuola “vecchia” e liberticida. E’ l’unica che rispettino!
A me, negli istituti in cui mi trovo ad operare anno dopo anno, SENZA ALCUNA ECCEZIONE, almeno finora, è capitato di constatare che passano per “grandi professori” quelli considerati “severissimi”, cioè quelle cariatidi per ideologia e valori ferme al ventennio, che fanno coincidere lezione e verifica sadica, che lavorano meno degli altri perché seguono pedissequamente dei testi-feticcio e non accettano dialogo né critiche, e che celano la loro necessità di nascondersi e la loro voglia di evitare ogni dialettica dietro la violenza e l’oltranza verbale.
Il professore che dialoga coi ragazzi e li educa, invece, smascherandosi, smascherandoli e additando frontiere e legami nuovi tra i saperi, è il “FESSO”, il DEBOLE lo “STRONZIABILE”, anzi (mutuo il linguaggio studentesco per essere più icastica e efficace).
Ecco… I “grandi” prof., per genitori e alunni, non sono quelli che abilitano gli studenti a diventare coscienti delle loro scelte, ma sono quelli che “terrorizzano”, ed è a loro che i ragazzi “ubbidiscono” senza fiatare, perché imparano col latte della mamma che solo la violenza e la sopraffazione sono rispettabili, che la civiltà e il rispetto dell’altro sono DEBOLEZZA imperdonabile!
Non sono scettica sulle capacità dei professori di operare una “renovatio”. Ce ne sono tanti appassionati, preparati e critici. Sono molto molto scettica sull’accoglienza delle loro proposte da parte dei ragazzi, tra i quali la coerenza è molto rara e che sono spinti, dall’età e dai modelli culturali vigenti e stravincenti, a recepire gli stimoli in modo interessatamente selettivo.
Per cambiare la scuola, devono cambiare i valori propagandati dalla società e gli schemi di pensiero della famiglia “tradizionale” (o finto-tradizionalista).
Da soli, non ce la facciamo.