PALAZZO REALE A MILANO 14 OTTOBRE 2009 -31 GENNAIO 2010
ROMA, FONDAZIONE ROMA MUSEO 16 FEBBRAIO 2010 – 13 GIUGNO 2010
Per interpretare la mostra di Hopper non possiamo prescindere dal contesto storico culturale in cui visse e che a noi europei sovente sfugge.
L’America che sta dietro i quadri di Edward Hopper aveva cominciato a esistere qualche tempo prima della sua nascita, ha preso forma negli ultimi decenni del secolo XIX, come protagonista di un’accelerazione tecnologica ed estetica, sociale e culturale che ha pochi precedenti nella storia.
Unificata dall’Atlantico al Pacifico dalle nuove vie di comunicazione, è un Paese che scopre la propria immensità e nella teoria della “Frontiera” di Frederick J.Turner (1893), giustifica la necessità della propria espansione, sopravvaluta la peculiarità dei suoi abitanti come appartenenti a una nuova specie, quella del “pioniere,“ un tipo di uomo sui generis, geloso della libertà e della propria individualità, l’homo americanus, autonomo nell’arte della sopravvivenza con lo scopo di crescere una famiglia, costruire paesi e città, coltiva una concezione di democrazia che esclude i diversi e le minoranze, dai nativi agli uomini di colore .
Da Paese rurale e agrario, isolato e isolazionista, la Confederazione americana diventa una potenza industriale e militare che come tale si affaccia sul mondo. È l’America dei primi grattacieli e dei primi ascensori (la cui diffusione è resa possibile dall’impiego della corrente elettrica); ed è l’America delle ferrovie sotterranee metropolitane (la prima è a Boston nel 1897), dei treni transcontinentali che portano ferro e carbone dalle miniere alle fabbriche di Pittsburgh, Cleveland, Detroit e Chicago, che con i carri- frigorifero trasporta e distribuisce carne macellata in tutto il Paese.
Gli anni della “Ricostruzione”, aggiungono all’immaginario americano, l’immortale cliché del magnate astronomicamente ricco, in un periodo di sfrenato accumulo di capitali da parte dei cosiddetti “robber barons” o “baroni ladroni” – finanzieri, industriali e banchieri, sempre più facoltosi a discapito di quanti restano poverissimi.
Il miraggio della ricchezza e della prospettiva di una vita migliore, attira in America una miriade di immigrati dall’Europa, dal Sud America, dall’Asia, a quel punto l’eccesso di offerta di manodopera permette però ai datori di lavoro di mantenere bassi sia i salari, sia i livelli di sicurezza nei cantieri, nelle fabbriche e nelle aziende agricole
La ricchezza sembra essere ratificata dalla volontà di Dio. L’evoluzionismo di Darwin si sposa per una volta con la predestinazione calvinista. L’esibizione delle proprie fortune è sfrontata in quegli anni. Ma c’è anche chi provvede per tempo a restituire alla società ciò che ha avuto dal destino, attraverso opere filantropiche:biblioteche pubbliche, ospedali, ricoveri, mense, scuole, accademie, musei, teatri e sale da concerto, grandi università.
Edward Hopper, che è nato nel 1882 a Nyack, sulla costa atlantica, frequenta le scuole d’arte a New York; e, nel 1906, lavora come illustratore e cartellonista per una azienda pubblicitaria: attività che svolge con sacrificio fino al 1924, quando arriveranno i primi riconoscimenti importanti e potrà permettersi, a 41 anni, di dedicarsi alla pittura a tempo pieno e sposarsi. Hopper era cresciuto in una famiglia agiata, negli anni del grande cambiamento, alla fine del secolo diciannovesimo. Aveva ricevuto una educazione vittoriana che gli aveva inculcato l’amore per la lettura e una invincibile e compiaciuta inclinazione ad attenersi ai fatti, seriamente indirizzato attraverso la professione alla ricerca della “verità interiore”.
I due soggiorni di Hopper a Parigi si concludono con viaggi in Europa;al rientro, nel 1913 Hopper vende il primo quadro e si trasferisce al numero 3 di Washington Square North nel Greenwich Village, residenza definitiva fino al 15 maggio 1967. Con intervalli di vacanze a Cape Cod, dove, in una casa senza le moderne “comodità”, come la luce elettrica e l’acqua corrente, trascorre con la moglie Jo diversi mesi ogni anno.La vita frugale e ritirata che conduce è interrotta solo da alcuni viaggi nel West degli Stati Uniti e in Messico; e, quando sono a New York, dalla regolare frequentazione di cinema e teatri. Nelle sue opere troviamo di volta in volta i richiami ai suoi soggiorni, ai suoi viaggi, agli spettacoli.
L’America che occupa i quadri di Hopper, e che si intravede come attraverso una porta socchiusa, viene rappresentata come la scena in cui si infrangono i miti e si genera incomunicabilità, solitudine e amarezza, proprie degli abitanti di una grande società industriale e commerciale; spesso questa visione viene giustificata dalla conseguenze della “Grande Depressione” del 1929/30, poi dalla corsa in avanti frenetica.
Al tempo stesso nella sua pittura Hopper documenta il proprio percorso interiore di fronte alla realtà e alla natura in continua evoluzione per tutta una vita .
Hopper, come ebbe lui stesso a dichiarare, ci aveva messo dieci anni a liberarsi dell’Europa , dieci anni interi per cominciare a diventare sé stesso e uscire dalla tutela degli antichi maestri, maestri che ha continuato ad amare con nostalgia.
Hopper aveva dell’arte una concezione austera e del tutto aliena sia dalle facili esaltazioni per il trionfo della “modernità”, sia dalle accalorate “denunce” di carattere politico.
Ecco perché alcuni visitatori escono dalla mostra con qualche domanda inevasa: dov’è l’urlo di dolore dopo tante tragedie che l’artista ha visto investire gli USA? Dalle guerre alle atomiche, dalla grande depressione alla Shoah, dalla pena di morte agli assassinii dei Presidenti?
L’intimo stupore e, allo stesso tempo, l’estraneità estatica di Hopper nei confronti degli oggetti e delle figure producono paesaggi la cui prospettiva simbolica esclude una qualsiasi apertura sull’orizzonte; interni ed esterni che sono messi in relazione tra di loro in maniera problematica e che sono allusive della impossibilità di una vera corrispondenza tra il dentro e il fuori, il finito e l’infinito, il cuore dell’uomo e il senso dell’universo.
I quadri di Hopper contengono molto di più di quel che si vede, ma sono allo stesso tempo “realistici” come reale è la nostra esperienza quotidiana (luci, ombre, prospettiva, legge di gravità, e così via). Per questo motivo sono quadri carichi di “significato”, alludono, con la grammatica e la sintassi della loro composizione, a un’altra realtà intermedia che ha luogo nel “teatro della mente”, sia dell’artista sia di chi osserva.
La pittura di Hopper sfiora appena le tematiche tragiche, le lascia sottintese, forse vi allude. Viene spontaneo avanzare l’ipotesi che il suo quadro più famoso, Nighthawks, possa essere associato all’annuncio dell’attacco giapponese alla base navale di Pearl Harbour il 7 dicembre 1941; o che il clima di intrigo che c’è in Night Conference (1949) riproduca quello di una riunione segreta ai tempi della “Caccia alle streghe”.
I suoi quadri vanno oltre le circostanze e si fanno arredo scenico semplificato. sono icone del tempo in cui affiora e divampa la cinematografia, anticipano la sofferenza intimistica di molti europei.
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Sogni infantili e realtà presente si mescolano nell’intenso blu della sera, fra i tavolini e le luminarie, ma le persone sono figure elegantemente estranee, tanto che il bianchissimo pierrot in primo piano traluce come una presenza altra.
Il soldato seduto al tavolo al centro è stato interpretato come il surrogato di Hopper, di schiena rispetto allo spettatore, invita a guardare oltre le sue spalle.
“Summer Interior” (Interno d’estate),
1909, periodo francese,Tracce di espressionismo, di richiami a Toulose Lautrec, seguiti da una sensibile analisi interiore , una donna sola, seminuda, in una stanza vuota, ai piedi del letto disfatto, in un cerchio bianco straniante.
Le libere pennellate e i piani inclinati dell’interno ricordano i pastelli di Degas, come pure la posizione casuale, spontanea della protagonista, rimanda all’occhio di Hopper e nostro che sbirciano non visti.
La donna di Hopper esercita la stessa fascinazione erotica delle donne algide di Alfred Hitchcock, che non a caso in molti suoi film si è appropriato di scene, paesaggi e atmosfere hopperiane
Più affettuoso lo sguardo posato su vecchi battelli, “Two Trawlers” (Due pescherecci), si riconoscono le fantasie di Mark Twain, il fascino del viaggio lungo il percorso dei fiumi, vissute in prima persona.
Cape Cod Sunset 1934 : quasi un castello incantato ma terribilmente solitario, appaggiato sulla terra rosa, come sopra una nuvola di moquette, intanto tenti di individuare presenze dietro i muri, figure tra le persiane dischiuse e le tende aperte.
Second Story Sunligh 1960 Due donne su un terrazzo baciato dal sole, al secondo piano di una casa bianca, estranee l’una all’altra, come pezzi di un collage. Abitano un edificio dalle forme essenziali, godono le carezze del sole e del pennello intinto di nero dell’artista.
Sono passata e ripassata nelle sale, da diversi scorci del Louvre, dai ponti francesi delineati in varie ore del giorno , poi dagli spazi immensi americani, dagli interni spogli e silenziosi, per le grafie di luoghi desolati, contesti evocativi di metafore più grandi che parlano di drammi mentali, isolamento, inquietudini e come dopo lunghi processi di autoanalisi ho scorto qualche abbaglio luminoso. Ma il grido di dolore resta congelato sull’io dell’autore.
Hopper è certamente un artista emblematico per gli USA, uno dei più significativi, ombroso e meditativo, ma io esco con una profonda sensazione di incompiuto che riconferma la validità di quesiti sospesi.
Consigliatissimo: Mark Strand, Edward Hopper , Donzelli editore
(il poeta americano descrive i singoli quadri a modo suo)