La lingua ci fa diversi.
Potremmo cominciare così, rovesciando l’esortazione programmatica di don Milani[1] in amara constatazione sociologica, il resoconto della conferenza che Tullio De Mauro ha tenuto a Bologna il 29 gennaio 2010[2] su alcune ricerche storico-socio-linguistiche secondo le quali la lingua, per l’appunto, “fa diversi”, in Europa, soprattutto gli italiani.
E, a nostro avviso, non è detto che abbiamo motivo di vantarcene.
De Mauro ha presentato una sintesi ragionata delle sue pubblicazioni più recenti[3] e noi qui daremo conto di alcuni degli snodi a cui tali studi sono stati ricondotti nell’occasione dallo stesso linguista:
- le diversità linguistiche nazionali
- il lento convergere verso l’italiano
- il rapporto tra scuola ed educazione linguistica
- 1. Diversità linguistiche nazionali
Nel 2006 in Italia erano presenti 17 gruppi dialettali “vivi”, 14 lingue di minoranze native, 1 lingua nazionale. In sostanza, in Italia si parlano 32 idiomi nativi e tale mescolanza linguistica caratterizza il nostro paese come quello con il più alto indice di diversità linguistica nell’Unione Europea: ogni nativo italiano ha lo 0,593 probabilità di non trovare un altro nativo con lo stesso idioma tra i 32 parlati contro, ad esempio, lo 0,272 di un francese o lo 0,189 di un tedesco.
Naturalmente, sono prima di tutto storiche le ragioni alla base della eterogeneità linguistica italiana.
Tra queste, De Mauro ha ricordato sia l’insigne faiblesse, l’illustre debolezza, che Francois Braudel[4] attribuisce al policentrismo costitutivo dell’Italia in età moderna – cui molto parzialmente solo la Germania si approssima -, sia la suggestiva metafora di Cesare Correnti[5] che, riferendosi alla fase dell’unificazione, descriveva l’Italia come un edificio con tante stanze che comunicano con l’esterno ma non tra loro.
Metafora, peraltro, suscettibile ancor oggi di letture altrettanto suggestive in ambiti i più svariati…
2. Lento convergere verso l’italiano
A quasi 150 anni dall’unità, le ricerche storico-linguistiche registrano un lento convergere dei dialetti verso l’italiano, come è
possibile constatare dalla tabella 1:
|
1861 |
1955 |
1974 |
1995 |
2006 |
italiano |
2,5 |
18,0 |
25,0 |
44,4 |
45,6 |
dialetto |
97,51 |
64,0 |
51,3 |
6,9 |
6,4 |
italiano/dialetto |
—- |
18,0 |
23,7 |
47,5 |
44,1 |
italiano/altro |
—- |
—- |
—- |
1,2 |
3,9 |
Tabella 1 –
Noi possiamo qui approfondire ulteriormente questi dati attingendo da altri passaggi dell’indagine Istat 2006, secondo la quale << la scelta del linguaggio è inoltre influenzata dal genere: le donne mostrano una maggiore propensione a esprimersi soltanto o prevalentemente in italiano in famiglia (46,9% a fronte del 44% degli uomini ) e con gli amici (51,6% contro il 46%). Il divario tra maschi e femmine è maggiore tra i giovani, diminuisce nelle classi di età successive per poi annullarsi tra gli anziani >>. Così come << dal 2000 al 2006 l’uso esclusivo del dialetto è diminuito soprattutto tra le persone dai 55 ai 64 anni sia nell’uso in famiglia che tra gli amici con una diminuzione di oltre il 26%. Nel 2006 le donne privilegiano a tutte le età l’uso esclusivo o prevalente dell’italiano in tutti i contesti comunicativi e le differenze di genere rispetto al 2000 sono rimaste sostanzialmente invariate >>.
De Mauro ha richiamato l’attenzione sulla permanenza, a tutt’oggi, di un certo policentrismo linguistico che in filigrana fa emergere alcuni fenomeni linguistico-culturali riferibili sostanzialmente a quattro circostanze:
- una progressiva italianizzazione interna dei dialetti;
- la formazione di italiani regionali ben accetti anche oltre i “confini locali”; in particolare, il milanese e il romano veicolati dal cinema dapprima e dalla televisione poi;
- il code switching, il codice di commutazione, praticato a livello letterario da numerosi scrittori italiani del secondo novecento tra cui, evidentemente, Gadda e Pasolini, e oggi il popolarissimo Camilleri;
- una buona convergenza verso un lessico standard.
Soffermandosi su quest’ultimo punto, De Mauro ha chiarito il nocciolo di una ricerca sulle “variazioni standard dello standard linguistico” condotta a Milano, Firenze, Roma e Napoli mediante un esempio che, a nostro giudizio, può costituire un efficace spunto anche per la didattica. Vediamolo.
Nel 2008 la frase << stamattina debbo aver visto tuo padre>> costituisce la formula standard preferita per esprimere l’informazione in essa contenuta. Non è l’unica, ovviamente, ma le formule dominanti si sono drasticamente ridotte rispetto alle ben 320 rilevate nel 1963! Ecco, solo per esemplificare, alcune variazioni:
- stamattina > stamani, stamane, questa mane, questa mattina, ecc.
- tuo padre > papà, babbo, genitore, tuo padre, tuo babbo, il tuo papà, ecc.
- debbo/devo; visto/veduto, ecc.
per non parlare, poi, delle variazioni sintattiche di posizione quali, ad esempio, la posposizione dell’avverbio in fondo alla frase.
- 3. Rapporto tra scuola e educazione linguistica
De Mauro ha quindi illustrato i dati percentuali Istat 2001 (tabella 2) sul rapporto tra popolazione italiana e titoli di studio:
titolo di studio
|
dati percentuali |
laureati |
7,55 |
diplomati |
25,83 |
licenza scuola media |
30,12 |
licenza scuola elementare |
25,40 |
senza titolo di studio |
9,65 |
analfabeti confessi |
1,45 |
Tabella 2 – Rapporto Istat 2001
In valore assoluto, nel 2001, sommano a oltre 19 milioni gli italiani privi di titolo di studio o in possesso della sola licenza elementare. E se è vero, come tiene a sottolineare D Mauro, che nel 1955 gli italiani senza scuola erano ben il 59,3 % e nel 2001 sono “soltanto” l’11,1 %, è purtroppo altrettanto vero che nel 2005 solo il 19,8 % risulta in possesso delle competenze minime per la comprensione dei testi, per il calcolo e per il problem-solving > v. tabella 3.
Dati sconfortanti che erano già stati anticipati dalla ricerca dell’Istituto Cattaneo del 1995[6] e poi confermati dalle indagini Invalsi e Ocse-Pisa successive[7].
competenze
|
dati percentuali |
sopra i livelli minimi |
29,0 |
illetterati |
33,0 |
semi-analfabeti |
33,0 |
analfabeti |
5,0 |
Tabella 3 –
Per allargare lo sguardo, a nostro giudizio, é tuttavia opportuno riferire il paragrafo La forza perduta dell’istruzione del Rapporto Censis 2009:
<< Circa l’80% dei giovani tra 15 e 18 anni si chiede che senso abbia stare a scuola o frequentare corsi di formazione professionale. Dominano il disincanto e lo scetticismo: il 92,6% dei giovani in uscita dalla scuola secondaria di II grado ritiene che anche per chi ha un titolo di studio elevato il lavoro sia oggi sottopagato, il 91,6% pensa che sia agevolato chi può avvalersi delle conoscenze. Anche il 63,9% degli occupati giudica inutili le cose studiate a scuola per il proprio lavoro. La visione pessimistica travalica i confini dell’universo educativo: il 75% dei laureati e l’85% dei non laureati di 16-35 anni pensano che in Italia vi siano scarse possibilità di trovare lavoro grazie alla propria preparazione. Effettivamente i laureati italiani in economia e in ingegneria hanno attese di remunerazione minori rispetto ai loro colleghi europei: nel 2009 il primo stipendio annuo atteso è inferiore rispettivamente del 20,2% e del 21,4% di quello medio europeo. E ancora il 19,3% dei giovani italiani di 18-24 anni non è in possesso di un diploma e non è più in formazione, contro il 12,7% di Francia e Germania, il 13% del Regno Unito, il 14,8% medio europeo >>.
Secondo la ricerca effettuata da De Mauro, la disparità nella partecipazione alla vita culturale in Italia, nel 2006, riguarda oltre il 50 % della popolazione che, di fatto, vive in condizioni di quasi totale passività.
A questo proposito sono illuminanti anche i dati Istat 2006-09 relativi alla dimensione economica regionale delle attività culturali:
<< La quota di spesa per ricreazione e cultura presenta una discreta variabilità territoriale. Nel 2007, il valore più elevato della spesa per beni e servizi a carattere culturale è sostenuta nel Nord, dove rappresenta il 7,7 per cento della spesa complessiva per consumi finali. Nelle regioni del Centro il valore è pari al 6,6 per cento e scende a 5,8 nel Mezzogiorno. Le regioni in cui le famiglie hanno destinato a consumi culturali e ricreativi una quota maggiore della spesa finale per consumi sono l’Emilia-Romagna e il Piemonte (circa l’8 per cento).
Tra il 2000 e il 2007, la quota di spesa destinata dalle famiglie a consumi culturali si è ridotta di 0,4 punti percentuali. La tendenza è generalizzata (con l’eccezione del Molise) e la riduzione maggiore si registra nel Centro (-0,7 punti) – su cui influisce il risultato particolarmente negativo del Lazio (-1 punto) – seguito dal Mezzogiorno (-0,5) >>.
E al confronto con il contesto europeo:
<< Il confronto internazionale, riferito al 2006, mostra come la quota di spesa delle famiglie italiane destinata a consumi culturali (6,9 per cento) sia decisamente inferiore a quella media dei paesi Ue27 (9,4 per cento). I paesi che si collocano
nella parte più bassa della graduatoria europea, con valori prossimi o inferiori al 6 per cento, sono Lituania, Bulgaria e Romania. All’estremo opposto in un nutrito gruppo di paesi, tra cui quelli nordici e il Regno Unito, la spesa destinata a
consumi culturali supera nel 2006 l’11 per cento. Francia e Germania, entrambe con il 9,3 per cento, si collocano appena
sotto la media europea >> .
Conclusioni
Come uscire dall’impasse? Creando, sostiene De Mauro, un sistema di educazione degli adulti adatto a colmare quelle distanze
tra chi viene da famiglie più attente e capaci di leggere e scrivere e chi viene da famiglie in cui questo non avviene. Perché l’educazione degli adulti serve agli adulti, ma serve soprattutto ai giovani. Se poi ciascuno degli ottomila comuni italiani avesse una biblioteca… se poi la Rai avesse di nuovo le sue orchestre… Curiosamente, però, De Mauro assolve il sistema educativo italiano, e se non è altrettanto indulgente con le scelte di prospettiva, sembra esserlo con il sistema ora forse al tramonto; solidarizza con la classe docente finora operante e con gli “studenti ignoranti” ridicolizzati dai media.
A noi la posizione è parsa bizzarra se non incongruente e abbiamo domandato al professore se non trova che un inquietante
filo rosso colleghi quei 19 milioni di italiani illetterati alla deriva sociale e politica odierna e se, soprattutto, non trova che il sistema educativo italiano sia almeno oggettivamente corresponsabile di scelte e prassi leggibili come ambigue profezie che si autodeterminano.
La risposta ha vagato gentilmente lungo i pendii di quella sostanziale sfiducia in una modernizzazione radicale che, a nostro giudizio, tanto ha pesato e pesa nell’orizzonte culturale e politico italiano, anche a sinistra. Laddove “modernizzare” non significa certo, sempre a nostro avviso, “semplificare” e tanto meno “tagliare”, bensì significa diffondere autorevolmente conoscenze e metodi plurimi e rigorosi, adottare strumenti e strutture tecnologicamente avanzati e battersi, battersi con ogni energia perché un’autentica educazione di massa, senza paternalismi ipocriti, sia l’obiettivo strategico del cambiamento.
Bologna, 13 febbraio 2010
[1] Don Lorenzo Milani (1923 – 1967), educatore e scrittore; fondatore della “Scuola di Barbiana”
[2] A Scienze della Formazione nell’Aula Magna stracolma di pubblico, salutato dal vicepreside prof. Greco, dalla decana dei linguisti italiani Maria Luisa Altieri Biagi e da Silvana Loiero, segreteria del Giscel Emilia Romagna promotore dell’incontro.
[3] Storia linguistica dell’Italia unita, 2008 e La cultura degli italiani, 2010, entrambi editi da Laterza
[4] Francois Braudel (1902 – 1985), storico francese direttore delle Annales
[5] Cesare Correnti (1815 – 1888), patriota e politico italiano, fu ministro dell’Istruzione del Regno d’Italia
[6] Giancarlo Gasperoni, Il rendimento scolastico, Il Mulino, 1997