Nelle giornate di pioggia l’occasione di visitare la mostra di Forlì dedicata ai fiori è imperdibile, forme, colori e slanci simbolici aprono visioni primaverili intensissime volte a perdurare a lungo come una gratificante terapia alle malinconie di questi tempi. Pare persino di percepire nelle sale le fragranze di tanta natura.
I primi suggerimenti vengono dalle schede botaniche: meticolose e vivacissime fin dal ‘600. Guido Reni stesso fu chiamato a collaborare all’importante impresa editoriale, finanziata dal cardinal Francesco Barberini, del “De florum cultura” di Giovan Battista Ferrari (Roma 1633), contenente quarantasei tavole, incise da Greuter su disegni dei maggiori artisti del tempo: da Guido Reni appunto a Pietro da Cortona, a Giovanni Lanfranco e Andrea Sacchi.
Nel XIX sec. nelle scuole di Lione e di Vienna i pittori di più alto rango intrecciarono rapporti con i più significativi giardinieri dell’epoca e con esperti produttori di porcellane e arazzi, in una straordinaria consonanza di ricerche e di risultati.
Ma è meglio procedere per gradi, o meglio dai gradoni che ci consentono di accedere alle sale superiori. Siamo venuti attratti dall’icona-logo della mostra e ce la troviamo all’improvviso davanti ancora più affascinante: un superbo trionfo di gigli di campo, fresie, passiflora, iris, “stella di Betlemme”, collocato a fascio dentro un fiasco rotto all’imboccatura, gli anelli di paglia, vanno lentamente perdendo la forma come fossero righi musicali strappati alla treccia cui erano attorti.
La “Fiasca fiorita” Considerata una della più belle nature morte di tutti i tempi, avvolta da un mistero che la rende più attraente. Non è stato, infatti, identificato il suo autore, anche se dai più grandi esperti di storia dell’arte (Arcangeli, Zeri) sono stati fatti molti nomi tutti significativi, da Caravaggio a Cagnacci, al fratello di Guercino, a Carlo Dolci. Il quesito è, probabilmente, destinato a rimanere insoluto, oggetto di un dibattito che non può dirsi a tutt’oggi concluso, e forse proprio per questo più ci accalora.
E se ci fosse una mano femminile nel comporre e scomporre valori naturali e spirituali con spontaneità ed eleganza, tanto da porre anche un rametto più stanco che dolcemente si reclina a lato?
Sicuramente di Caravaggio è la “Canestra dell’Ambrosiana” la “fiscella ex qua flores micant” come la definì Federico Borromeo nel suo “Museum”, la “prima natura morta moderna”, i colori tenui esprimono malinconia, come alcuni frutti che mostrano le tracce dello scorrere del tempo, e le foglie di vite accartocciate. La luce, l’ombra; la vita, la morte; la forza vivificatrice della grazia.
A Forlì attorno a questo tema ruotano appunto prima la sezione seicentesca della mostra, e poi le successive, dal naturalismo caravaggesco all’affermazione della modernità con Van Gogh e il simbolismo, giungendo così alle soglie del Novecento.
Ci sono fiori eseguiti in punta di pennello da alcuni tra i primi grandi specialisti di area fiamminga da Jan Brueghel il vecchio, una “maternità “dolcissima circondata da una ghirlanda di fiori di campo in tutto il loro fulgore. Poi “una caraffa di fiori” nella boccia di cristallo, resa ancor più plastica dai riflessi di una finestra, accoglie vanitosa un bouquet di fiori bianchi, rossi, gialli, di campo intervallati da rametti di lavanda o di erica. Segue un” vaso di fiori” dai tratti maestosi, prodotto a due mani con Brueghel il giovane.
Nel corso del Settecento, la natura morta floreale sarà sempre più incline a rincorrere effetti d’immediato impatto decorativo, perdendo in qualche caso lo smalto del secolo precedente.
Nelle sale successive dedicate a una forte e decisiva ripresa di motivi floreali nel corso dell’Ottocento, che propone nuove valenze simboliche intrecciate con la letteratura dell’epoca, (da Goethe, a Baudelaire, a D’Annunzio, a Pascoli…) una produzione altamente specifica e commerciale sviluppa nuovi significati.
Con Francesco Hayez si giunge a veri stati di grazia nell’incontro fra le figure e i fiori; celebre la “Malinconia” un dipinto emblematico del malessere, delle inquietudini della condizione femminile contemporanea Nel “Vaso di fiori sulla finestra di un Harem”, tributo alla nuova moda orientalista con vigore personalissimo, il vaso è proiettato dalle mani verso l’alto di una balaustra, testimonianza finale di una vitalità artistica energica e ricchissima.
Per i pittori che entrarono a far parte della Confraternita dei Preraffaelliti, fondata a Londra nel 1848 da William Holman Hunt, John Everett Millais e Dante Gabriele Rossetti, uno dei principi fondamentali fu la “verità verso la natura”, per loro una vera ossessione nel rendere con la maggiore esattezza e fedeltà possibile ogni minimo dettaglio, quasi con fanatismo scientifico, ricreato in superfici dipinte di abbagliante luminosità. I particolari botanici volutamente ravvicinati assumevano una dimensione magica, suggerivano istanze spirituali ed esistenziali, come si ritrova nella celebre “Ophelia” di Millais.
Ci scuote l’atmosfera dolente e allucinata del “Ricordo di un dolore” di Giuseppe Pellizza da Volpedo, basta una sola pallida pansé schiacciata tra le pagine di un libro per cogliere le diverse varianti sul tema della malinconia e con esse sul senso della vita.
“Il centauro stanco” resiste dolente e sfinito come trasformato in vegetale, esprime le scelte della cultura simbolista francese in Gustave Moreau con un recupero molto personale del mito classico reso con un’allucinata visionarietà.
In perfetto contrappunto, partendo dalle premesse impressioniste di Paul Cézanne per rendere più chiare e compatte le immagini, innalza i piani, valorizza i volumi come ne” frutta con vaso di fiori” il mazzo di fiori, pur in secondo piano sopraelevato, non si fa intimorire dalla bianca tovaglia stropicciata con due pere appoggiate sulle pieghe, anzi il bianco delle corolle si allaccia alle pieghe stesse, e brilla poi si protende all’indietro, verso l’ombra con petali rossi e steli blu.
Paul Gauguin imprime un’altra svolta ci racconta prima di elementi simbolici della natura francese, seguendo l’esempio dei giapponesi i quali secondo lui “disegnano in maniera ammirevole”, vuole abolire le sfumature, per realizzare tocchi smaglianti in “vaso di astri di Cina” bianchi e lievemente sfumati in blu, con tocchi rosso-lacca su fondo scuro, ma due corolle scivolano sullo spartito, rompono un rigore tecnico per sorprenderci e immalinconirci. Poi quando è In fuga dalla società industrializzata, rappresenta una natura profondamente diversa: nell’esilio di Tahiti, paradiso tropicale, luogo di una vita primitiva. Crea un paesaggio- leggenda fatto di natura e di un’umanità incorrotte, “Orana Maria”in un Eden dove i fiori scendono dagli alberi tra le siepi nei pareos di cotone, avvolgono i fianchi delle donne, nella reciproca sfolgorante bellezza rappresentano la felicità.
Altri effetti pittorici da Vincent Van Gogh La sua poetica intende esaltare le“cose più comuni”. “quasi esclusivamente fiori” per abituarsi a servirsi “di colori che non fossero soltanto il grigio: vale a dire usare il rosa, il verde, pallido o crudo, l’azzurro, il violetto, il giallo, l’arancio, un bel rosso”, e in quest’occasione “Astri”, un vaso di fiori porcellanato lancia verso l’alto un equilibrato mazzo di astri: una tavolozza colorata, ma non ancora abbagliante. Celeste, rosa, vermiglio, giallo ,verde chiaro, in delicato equilibrio, accanto “Vaso di fiori diversi” è in realtà un mazzo di gialli, lievi fior d’oro con due papaveri rossi reclinati.
Una dimensione più naturalistica legata alla rappresentazione di un immaginario domestico e a temi esistenziali nell’inquieto spazio de “Le capinere” ove i rami di pesco fanno sbilanciare in avanti, oltre un muro, le suore giovanissime sotto ali di capelli enormi. I rami di pesco, che sostengono un nido, racchiudono la sorpresa di una nuova vita…Capolavoro realizzato da Emilio Longoni che fa affiorare suggestioni pascoliane .
I gigli che non riescono a consolare della morte prematura, costituiscono l’elemento predominante della composizione nel “Funerale di Lidia” dove Alfonso Quarantelli recupera le suggestioni mitologiche e il clima eroico dannunziano: uomini vigorosi accompagnano su una lettiga una fanciulla bellissima dall’incarnato color dell’acqua.
Giuseppe De Nittis propone la ricerca sui valori luminosi e atmosferici d’interni famigliari : “Un bouquet di fiori “gialli fra argenti e cristalli, su una tovaglia tanto bianca da sembrare argentea, rimanda a tenerezze domestiche, con tocco di signorilità.
Esprime poi una predilezione per i crisantemi, per possibilità di modulare luci e colori attraverso i loro volumi sfrangiati, la scelta del non finito e della penombra, rende le immagini come filtrate dalla memoria, malinconiche.
Prorompono ”i malvasoni” fuxia di Segantini, abbacinati di colore e di profumo e vibranti alla brezza serale.
Impasta luce e colore, nei superbi colpi di pennello, Giovanni Boldini, costruisce davanti ai nostri occhi l’immagine”braccio con vaso di fiori” un elegante braccio di signora, chiarissimo, quasi perlaceo, si staglia nervoso fra piume e stelle filanti nel gesto più di sparpagliare i fiori che ricomporli in un vaso giallo.
Ecco Claude Monet con un suo celeberrimo dipinto dalle impressionanti dimensioni (quasi sei metri di larghezza), fissare su tele la mobilità de”le Ninfee”. Non sono più i fiori ad essere rappresentati, ma la loro percezione, i messaggi della luce e dei colori che inviano a colpire direttamente gli occhi. Le foglie degli alberi, ninfee glicini, liane, acqua, con le loro apparenze mutevoli rese senza più bisogno del disegno, dei rapporti prospettici, invadono lo spazio del dipinto creando da sé se stesse, sature di luce, si muovono nello spazio, diventano una nuova realtà, “panorama fatto d’acque e ninfee, di luce e di cielo”, un “insieme misterioso, poetico, incantevolmente irreale” dove, “acqua e cielo non avevano né inizio né fine”.
Il sorriso di arrivederci preferiamo coglierlo dalla “primavera” imbronciata di Bernini e da quello suadente della” Flora “di Vela. Come una lolita sfrontata, che emerge dai boccioli di una siepe, in marmo bianco vibrante. Più che a uscire ci invita a entrare, a ricominciare la passeggiata nelle fragilità sospese della primavera dell’arte.
Forlì, Musei San Domenico, 24 gennaio – 20 giugno 2010