A come
Aula 1 –
Un riferimento formale. Lei, nostra. “Tappezzata” con motivi geografici sui quattro muri italiani: scorticati, malmessi e antichi.
Grande, ma riempita da tanti banchi padroni degli alunni sotto il potere della cattedra.
Nell’angolo destro c’è un armadio, vicino della lavagna ripetente.
Per ingannare il tempo ci affacciamo fuori dalle finestre dipinte sulle pareti. Così, formale: banchi, armadio e lavagna.
La nostra aula, secondo piano sesta porta a destra.
(Francesco Calcagno, II media, “Rolandino de’ Passeggeri”, Bologna)
Aula 2 –
Entriamo in aula, che in genere chiamiamo “classe”, ma poi a volte ci comportiamo come se quella classe in aula non ci fosse.
Diciamo (sussurriamo, intimiamo, esclamiamo) buongiorno? Risuona di rimando un “buongiorno”?
No, non è una formalità. Non lo è neppure in sala docenti, né in ascensore né in un qualunque negozio.
“Dire buongiorno” è indizio della consapevolezza di esistere: noi e gli altri.
Come esseri animati e non come cose. Scodinzolio di cane, fusa di gatto.
Ma torniamo all’aula: ci guardiamo intorno per accertarci della presenza degli studenti, per compilare il registro.
E le ragazze e i ragazzi li vediamo?
Sguardi, sorrisi, abbracci, sbadigli, smorfie, sotterfugi e richieste, stili, abiti e soprattutto linguaggio, scambi, cibi, risate e pianti, grida e brusii, confidenze, rancori, bisticci e lamentele, noia….
Ciò che sanno del mondo e ciò che ignorano affiora lì, in quelle sospensioni irrisorie del tempo e del codice. Ciò che sappiamo noi del loro mondo, che in ogni caso è il futuro del mondo, e ancor più ciò che ignoriamo del loro mondo, lo possiamo intuire lì, in quegli interstizi di partita. Affrettiamoci ad imparare i loro nomi.
C come
Classe 1 –
Un buon antidoto al classismo e al razzismo è appartenere ad una classe di razza(e).
N come
Nomi 1 –
Affrettiamoci ad imparare i nomi dei ragazzi prima ancora dei cognomi; anche i nomi ardui ed esotici proprio perché esotici e ardui.
Impariamo a pronunciarli correttamente, con semplicità e disinvoltura. Nomi, identità.
Rubiamo con prudenza ma senza pregiudizi, e senza morbosità, qualche grammo della loro personalità, della loro cultura e per pareggiare i conti regaliamo qualcosa di nostro, provando a tenere a bada il narcisismo o, all’opposto, un eccesso di riserbo.
Proponiamo con equilibrio un po’ di noi stessi attraverso il filtro di uno stile, frutto del lavoro consapevole e paziente su noi stessi.
Accogliamo con equilibrio il loro stile e guidiamoli con rispetto nel lavoro su sé stessi.
Mettiamo a fuoco a poco a poco informazioni sempre più circostanziate su ognuno di loro e teniamole a mente: chi è adottato e chi ha la tata filippina; chi gioca a rugby e chi è esonerato da ginnastica; chi è fanatico di fumetti, chi di cinema; chi ha timore di parlare, chi di scrivere; chi si fa trenta km per arrivare a scuola, chi viene dal Senegal; chi ha la madre primario, chi ha il padre disoccupato; chi fa provini di danza, chi è fanatico di automobili; chi ama Brahms, chi Bob Marley.
Opinioni, preferenze, ripulse, capacità, difficoltà, fortune, sfortune, illusioni e paure legittimate a coesistere pacificamente in una dimensione necessaria, per il solo fatto di “sussistere”. Grani di melagrana, non monadi.
Un buon antidoto all’omologazione è uscire dall’anonimato.