Accogliamo con piacere un’altra cronaca di Marcella.
Il ritorno dell’agorà: lo “sbarco” a Messina dei precari del Sud, tra rivendicazioni di categoria e contestazione politica a più ampio raggio.
E’ quasi l’una di notte. Sono a casa e guardo la stanza, le mie pantofole, il biglietto del treno di ritorno dal sit-in di Roma dell’8 settembre lasciato sul comodino. Guardo tutto come stranita e quasi non riesco a credere che solo 8 ore fa ero a Messina, sullo Stretto, a far vorticare per aria, sui binari occupati della stazione, la bandiera del Coordinamento Precari della Scuola di Napoli, alla stregua dei mulinelli, ipnotici e allegri come giri di tarantella, che si ammirano dal traghetto che porta da Villa S. Giovanni a Messina, frutto dell’incontro tra correnti concordi e d’accordo, nel ridere come nel punire, poste dalla natura a fronteggiarsi, a venirsi incontro, come i precari siciliani e quelli del Sud “continentale”, sbarcati sull’isola per rinforzare quella parte dello Stivale che sopporta il peso maggiore del faticoso viaggio del paese verso il progresso, verso la felicità.
Suola, punta e tacco, il Sud: la parte senza fronzoli, strutturale, la parte “sporca”, che tocca il suolo, la parte che si consuma e che deve resistere, la parte che ha la brutta ventura di finire sulla merda o il privilegio di toccare la rugiada sull’erba, al mattino, la parte con cui si danno calci in culo agli arroganti e nelle palle a chi tenta di violare, barare, contaminare; la parte che, quando si buca, si scolla o si rompe, costringe a fermarsi, a riparare il danno…
A mezzanotte di sabato, il pullman s’era materializzato davanti alla spirale del parcheggio Brin, togliendoci ogni titubanza, ogni alibi. Da Benevento, Caserta, Napoli, docenti, tecnici e simpaticissimi simpatizzanti, più Giuliana Lilli, in sciopero della fame, già conosciuta a Roma, l’8 settembre. Diafanizzata dallo sforzo, ma agile e cordiale, ha fatto e posto a noi e a se stessa tante domande, ci ha chiesto di raccontarle della nostra quotidianità, delle nostre cittadine, dei nostri quartieri… E’ una documentarista della vita.
Tutti a bordo. Qualche battuta, qualche notizia, qualche esecrazione delle ultime patetiche e oltraggiose “uscite” sul Sud dell’inqualificabile Brunetta; poi, il silenzio, il buio e la monotonia dei chilometri da macinare, cercando la posizione meno fastidiosa e meno spaccaossa sui sedili scomodi e troppo ravvicinati del pullman.
Ho cercato di concentrarmi sulla parodia di una canzonetta in funzione antigelmini, che necessitava di “limature”, ma la testa era svuotata dal buio, dalle gallerie, dalle buche e dalle cunette della strada. Daniele ha parlato in modo suadente e fluido fino a notte alta; ha parlato di tabù come l’uguaglianza o il diritto alla felicità, e pareva che avesse la ricetta per semplificarne la ricerca, la conquista. Ha convinto Diego e me che si può “ripensare” l’ordine intero delle cose, che non siamo costretti ad accettare quel che c’è, che cambiare tutto è strumentalmente facile come l’uovo di Colombo e solo psicologicamente difficoltoso, come far acclimatare un anziano in un’altra città…
Ero entrata in uno stato di dormiveglia inquieto e ottundente. Verso le sei di mattina, avevo iniziato a distinguere qualcosa, a sentire la dolcezza del viaggio e a vedere le sagome degli amici ciondolanti, messaggianti o addormentati. Mi sentivo protetta e contenta. Quando il pullman aveva frenato per un istante, avevo provato un dispiacere, un rammarico strano, subito sparito col rumore della ripresa del motore: il viaggio non era ancora finito, per fortuna; potevo godermi ancora l’appagante sensazione di essere proiettata verso un eccitante ignoto in compagnia di amici fidati, su cui posso contare e che contano su di me, riconoscendomi un ruolo (mentre lo Stato continua a negarmelo!!!)…
Alle 7, il giorno si era presentato con la faccia blu cobalto del mare e con le case sgarrupate di Villa S. Giovanni. Lo splendore del mare contrastava con lo squallore delle case, con i cipressi dei molti cimiteri, con il dissesto delle colline a strapiombo, che sembrava volessero franare da un istante all’altro. L’antropizzazione di questa terra, piena di gru spettrali e di cemento stonato, mi è parsa una sfida lanciata come un guanto in faccia a un territorio che non prevedeva né intende tollerare la presenza umana. Mi è venuta in mente solo la parola “sfregio”, a guardare intorno, e mi sono sentita tradita dal paesaggio, che avrei voluto e che mi aspettavo oleograficamente mediterraneo e opulento, serenante e quieto, fichidindia e palme, cicale e marzapane.
Domenica 12, ore 9,30. Sbarchiamo dal traghetto pieni di bandiere, striscioni e voglia di gridare. Due ore di attesa; tensione. I poliziotti arrivano. Una camionetta, due, tre. Comincio a sentirmi oltraggiata di nuovo. Perché di nuovo sono trattata da “problema di ordine pubblico”, mentre dovrebbe esser riconosciuto tale, e in misura molto maggiore, chi mi ha costretto a venire fin qui, chi umilia il paese con proscinesi degradanti ai più laidi tra i tiranni del mondo.
Scrivo un altro cartello. Ne avevo già preparati due, grandi. Ci si muove verso piazza Cairoli. Resto ad attendere delle colleghe lucane che si sono attardate e perdo il gruppo. Quando arriviamo in piazza, c’è un mare di gente urlante. Non trovo i “miei”, ma vedo una piccina accoccolata accanto a una panchina, in mezzo alla piazza, con una bottiglia di birra raccolta da terra e il tappo in mano. La accosta pericolosamente alla bocca. Mi precipito, prendo bottiglia e tappo e le dico: “No, no… non si fa… è sporco!”… Un anziano signore dice, in siciliano stretto, qualcosa del tipo: “Ma unnè ‘u pati ?” Mi sorprende che non abbia detto “la madre”. Forse perché è domenica, e la domenica la vigilanza “all’esterno” spetta a “lu pati”…
“Lu pati”, comunque, arriva e prende la bimba senza dirmi nulla. Io corro finalmente verso il corteo e l’attraverso tutto. Ma i “miei” sono già avanti, già hanno fatto il giro, audacissimi, e stanno già prendendo spintonate e gomitate dai poliziotti in tenuta anti-sommossa. “Sommossa”, infatti, viene chiamata, la rivendicazione del diritto al lavoro e del diritto allo studio anche per i figli di questi poliziotti, che un po’ sono imbarazzati e un po’ protestano di dover fare il loro dovere… Arrivo al porto, nello spiazzo da cui eravamo partiti. C’è gente e un cordone di polizia. I miei “referenti”, con il megafono, forzano la mano, guidano sapientemente i pivelli delle occupazioni e gli iniziandi alla resistenza attiva.
Ci sono almeno 50 gradi di calore percepito. SEDETEVI TUTTI! SEDIAMOCI! DA QUI NON CE NE ANDREMO! Mi siedo e inizio a scandire tutti gli slogan. Non c’è odio. “Dignità”, “Scuola Pubblica”, “Lotta”, “Istruzione”, “Stato”, sono le parole che più ricorrono.
Lo Stato, LO STATO… Lo Stato come concetto, come entità astratta, come comune obiettivo di crescita, di affrancamento dall’ignoranza, dalla paura… Ecco quello che sentiamo minacciato pesantemente: il concetto, la concettualizzazione come atto mentale. Brunetta, Gelmini e gente consimile sono stati piazzati in posti nevralgici per compiere questa missione: indurre il popolo a detestare e infamare chi concettualizza, chi indica alla gente – ai ragazzi, soprattutto -, quel che è al di là del presente, del corporeo, del visibile, del palpabile (nel senso più squallido e volgare del termine).
Uccidere il pensabile, chiudere il cerchio delle definizioni, limitarlo a quel che loro riescono a capire e vedere… L’assillo, insomma, di tutti i violenti: ridurre il mondo al loro livello di comprensibilità invece di allargare la mente per accogliere a poco a poco e umilmente l’incomprensibile o l’opinabile… Quando riescono, è dittatura, è schiavitù, è oppressione.
Mi copro col cartellone anche per difendermi dal caldo. La terra brucia, la gente è tantissima; le facce sono esaltate, felici per l’afflusso, per la solidarietà, per l’abbraccio che avvolge tutto lo Stretto, l’abbraccio degli onesti che non ce la fanno più, l’abbraccio di chi vuol difendere l’ultimo brandello di decenza e legalità. Arriva la stampa “up”; si decide per l’occupazione dei binari della vicina stazione. Sono passate ore. Mi muovo verso i binari e mi lascio andare al calore, senza combatterlo più. Mi squagli pure. Mi lascerò squagliare.
In questa disposizione, suggerisco slogan e li scandisco con rinnovata forza. Due sconosciute colleghe, una di Catania e l’altra di Palermo, si avvicinano, mi abbracciano ai fianchi e chiedono a un ragazzo di far loro una foto con “la napoletana”. Mi metto in posa pensando alla faccia terribilmente sfatta e brutta che devo avere in quel momento… Poco male. E’ una faccia che lotta, in ogni caso, una faccia che non si nega, che si espone per responsabilità verso il paese, gli studenti… E gli studenti CI SONO! Portano uno striscione, e nel loro slogan invitano alla lotta unitaria. Mi sento molto consolata da questa presenza; li guardo con materna e fraterna commozione. Una collega dice: “Se i nostri studenti ci vedessero, sarebbero fieri di noi perché abbiamo difeso la loro scuola”… Dà voce a un pensiero che ci attraversa tutti.
Arriva la notizia che, se continueremo a occupare i binari, denunceranno quelli che hanno chiesto le autorizzazioni per la manifestazione. Sono amici. Allora ci spostiamo, al grido: SE IL POPOLO E’ SOVRANO, BUTTIAMO FUORI IL NANO!…
La nostra coordinatrice, che saprebbe far sentire felicemente integrati in un gruppo anche Robinson Crusoe, Brontolo e il guardiano di un faro, rivolge un tattile e corposo saluto ai siciliani, applaudendo: “Napoli se ne va!… GRAZIE!” Grazie, sì, per “l’ospitalità”, per aver offerto il prestigioso teatro della lotta, per aver animato il tutto… L’applauso si fa reciproco e scattano gli abbracci. Tratteniamo a stento lacrime di fierezza e commozione. Abbraccio anche Giacomo Russo, che mi riconosce; ha recuperato un po’ di peso e di forze ed è lì, a casa sua, sotto il suo sole, a guardare soddisfatto un’opera di cui può legittimamente sentirsi un po’ padre…
All’Autogrill, nella serata, tiriamo le somme. Sentiamo tutti che l’ampiezza e risonanza della manifestazione sono state superiori a quelle finora riscosse. Concordiamo sul fatto che è importante continuare ad additare alla gente l‘agorà, la piazza cittadina fulcro della decisione collettiva, come modo alternativo di intendere la città, purtroppo ridotta a “centro di servizi”. Soprattutto, conveniamo nel ritenere che la valenza politica di questa occupazione duplice e duratura, che ha visto partecipi 4000 individui circa, è molto forte e attesta la vitalità ideologica e morale del Sud, più stanco, più vittimizzato, più colto, più analitico più “teoretico” del resto del paese. Uso, nel discutere, la parola “riscatto”, per inerzia, ma nel pullman mi accorgo che è stereotipata. Il Sud non vuole “riscatto”, ma ascolto. Sì, perché ci siamo abituati a percepirci come ci percepiscono e dipingono i leghisti, a difenderci dai pregiudizi “nordisti” al punto tale da incamerarli, stanarli e ucciderli in noi stessi… Invece, oggi abbiamo dimostrato che di pregiudizi, appunto, si tratta, e che tutto il buono che abbiamo non viene valorizzato né “partecipato”, nella misura in cui, parallelamente, non viene denunciato come pericoloso e degradante quanto di mostruoso cova in seno alle belle contrade del Nord Italia, infettate dagli sporchi tentacoli di una più defilata ma non meno ingombrante Gomorra, dalla malasanità che “obietta” solo nel pubblico, dal razzismo e dall’integralismo fanatico dei leghisti analfabeti.
Sul traghetto del ritorno, mi fanno notare che ho qualcosa sulle scarpe e sui jeans… “Lo so, lo so”, dico a Susi, ma non viene via… Se provo a tirare, il rivestimento della scarpa tiene dietro! Si tratta di un’erba fatta di spighe verdi piene di setole dure e appiccicose, che penetrano nelle fibre e non si staccano… Erano sui binari. Ne ho fatto il pieno. Non mi disturbano, nella disposizione d’animo in cui mi trovo. Penso, con compiacimento letterario scemo, che la Sicilia abbia voluto restarmi attaccata addosso in forma di spiga immatura e puntuta, che si insinua e che strappa le inibizioni e le convenzioni… Ne ho tenuta anche una intera, di quelle spighe. La cerco in borsa e la mostro a Susi. Viene con me, in borsa, la Sicilia, caldissima e in fieri, la Sicilia sintesi del Sud, contesa tra sfida e oltraggio, quasi laboratorio di umanità, che chiede di portare a termine lo scempio o di provare a tramutarla nel paradiso che lascia intravedere…
Noi, oggi, abbiamo aperto uno squarcio nella cappa di rassegnazione e remissione del paese tutto, partendo da qui, dai monumenti alla follia che costellano il nostro percorso, decine e decine di tunnel ciechi e terrificanti e decine di pilastroni di cemento enormi, agghiaccianti, che spuntano da forre profonde straripanti di verde, come fissero già dei relitti…
Mai come in questo paesaggio scempiato, così “imperfetto” e in attesa di definizione, la nostra opzione per il paradiso è risuonata e apparsa più giusta e convincente.