Un senso crescente di fallimento, anzi di disperazione. A ogni barlume di buona notizia o temporanea quiete, la paura quasi fisica che tutto precipiti nello schianto finale. Non c’è redenzione.
Chi dovrebbe salvare dalle sabbie mobili sta egli stesso sprofondando, e mostra il peggio di sé. Tutt’intorno squallore, rinuncia. Peggio: abitudine. Tranne quel cieco, burocratico andare avanti esercitando il potere piccolo e gratuitamente oppressivo dei carcerieri indistinguibili dai carcerati. Nessuno crede a ciò che fa, e si inacidisce a imporlo. Se l’Inutile fosse una divinità, sarebbe la religione ufficiale. Nessun colpevole o responsabile del mefitico ristagno, ma concorso di tutti, come in certi gialli di Agatha Christie; ma qui non riguarda una stanza chiusa, chiusa e strozzata è la vita stessa, ogni orizzonte. La vita di chi deve ancora imparare a viverla, la cui ribellione e rifiuto a oltranza è in realtà un disperato alzare la posta in cerca di un’autorità da riconoscere. Sto parlando degli effetti del genocidio culturale, napalm versato sulla vita, di fronte a cui ogni protesta sul red carpet di un festival di cinema è folklore di lusso. Sto parlando della scuola, quella vera, in macerie, che nessuna fiction tv ha mai mostrato, coi buchi nei muri delle aule. Studenti che abitano case prive di libri, insegnanti che ai libri non credono più: noia contro noia. Nell’anestesia e insensatezza generale, il raro sogno di una liberazione, di un’estetica, ha la forma della musica che libera il corpo, o di una pasticca colorata. Sto parlando del film La scuola è finita del regista e insegnante Valerio Jalongo, ambientato nell’Istituto “Pestalozzi” di Roma, come il grande pedagogo (oggi fantascienza). E tanto peggio se la bella crudezza della prima parte del film venga anch’essa alla fine inghiottita dal vortice sentimentale di una fiction tv. Valga come autodenuncia della colonizzazione della nostra anima, della strozzatura dei nostri sogni.