Quando entro in classe, l’ultima cosa che cerco di fare è “inculcare” qualcosa ai miei studenti. Perché so che “inculcare” qualcosa significa educare all’obbedienza passiva, al farsi “instrumento” o “vaso” da riempire, come diceva Giordano Bruno, di nozioni, balbettii, assurdità, che sono sempre sbagliati perché non fanno mai i conti con quello che siamo realmente – per cui, alla lunga, ci schiacciano, ci calpestano, ci comprimono e reprimono Del resto, l’etimologia di “inculcare” è chiara: viene dal latino “calcare”, ossia calpestare, schiacciare con i piedi – ma anche pigiare, come a forza qualcosa in qualcos’altro.
Al contrario, quando ho a che fare con i miei studenti, il mio scopo è sempre quello di farne degli “artefici” (per dirla sempre con Bruno), degli innamorati del sapere e del sole intelligenziale che apre la via al fare, alla conoscenza e alla divinità (se è lecito, di questi tempi, parlare in questi termini…). Alla fine, non so nemmeno se si può parlare di “scopo”, da parte mia, perché “artefici” (non di se stessi, ma proprio del mondo!) si diventa da soli, con un innesto di volontà e passione, guidati dalle idee della bontà, della giustizia, della verità. E diventando “artefici”, si può arrivare fin dove si vuole, quasi senza limiti. Chi “inculca”, al contrario, calpesta e limita (“pigia”): e nessun pedagogo o filosofo – almeno da Sant’Agostino in avanti – mi risulta abbia mai utilizzato un termine del genere, così basso, per parlare di educazione.
Chi accetta di esser semplicemente un “vaso” o un “instrumento” – scrive Bruno – è come “un asino che porta i sacramenti”; chi è “artefice”, invece, è “come una cosa sacra” – è umanamente divino. E io, quando entro in una classe scolastica, preferisco avere a che fare con uomini e donne che aspirano all’umana divinità, non con degli asini, per quanto perfettamente apparati e abbelliti.
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